Bari, palazzi d’arte  anni ‘50  dedicati a Mondrian

di GENNARO PICINNI 

L’estro mi viene da una recentissima rivalutazione di una città come Praga sotto alcuni aspetti culturali divulgati senza risparmio dai media. David Cerny, autore di alcune «installazioni » tra le quali la discussa Europa , che ora occupa insolitamente il prospetto esterno di un edificio, ha enunciato che cambierebbe Praga solo con New York, che è quanto dire. Certo che la Repubblica ceca, dopo circa mezzo secolo di sonno in veste di satellite sovietico, in poco tempo (come avviene spesso dopo una repressione forzata) sta rivelando sorprendenti risorse per quel che concerne l’arte in genere, mentre architetti e designer compiono ristrutturazioni urbanistiche e ridisegnano gli spazi della capitale. 

Facciamo ora un salto indietro di circa 50 anni, quando tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 nella città di Bari si contavano 1.000 cantieri edili, e parlo di cantieri privati che (nel bene e nel male) avrebbero cambiato i connotati del centro murattiano e creato nuovi quartieri come Japigia e Poggiofranco nel cosiddetto estramurale. Ma è dei primissimi anni ‘50 che vi voglio parlare, perché quanto segue non tratterà di urbanistica, cosa che lascio volentieri ai tecnici, ma di alcune innovazioni estetiche riguardanti le facciate di alcuni palazzi che due architetti vollero apportare, avvalendosi (bontà loro) della mia collaborazione, con piena fiducia sul mio operato svolto in piena autonomia. 

Nel 1950 in via Melo 71, al primo piano di un vecchio palazzo d’epoca, operavano due giovani e coraggiosi architetti: Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano. Nel contempo chi scrive aveva fatto il suo esordio, da diciassettenne, con dipinti astratti, cosa affatto normale in una città del profondo Sud come Bari. Le strade di Vittorio Chiaia (rientrato da poco in Italia dopo un master illuminante negli Stati Uniti) e quella mia personale (neofita seppur reduce dalle legittimazioni arrivate dai Premi a carattere nazionale «Taranto», «La Spezia » e «Valdagno») non tardarono ad incrociarsi, al punto che il «crogiuolo» di via Melo 71 era diventato il mio rifugio abituale. Crogiuolo nel quale lo scambio di idee era talmente infervorato dal triplice alitare delle nostre parole, che i mobiles simil-Calder (in realtà erano pesci in carta di riso tipo lanterne cinesi collegati in equilibrio da fil di ferro e appesi alle austere volte a vela) i mobiles, dicevo, risentivano dello spostamento d’aria oscillando leggermente. Proprio come quelli del Nume Alexander che avevano stregato Vittorio in America, del quale Calder (a parte l’exploit milanese da Cardazzo-Naviglio 1955) soltanto ora in Italia si sta effettuando una rivalutazione (Palazzo delle Esposizioni in atto a Roma). 

Certo che gli architetti ebbero un bel coraggio ad affidarmi la scelta dei colori per un palazzo di via Dalmazia, verso la Rai, ben sapendo che io non avrei usato le mezze misure. Per i pannelli metallici dei balconi andai giù con smalti rosso brillante, giallo primario, verde bandiera e turchino. Ma lo scandalo (perchè di scandalo si trattò) si concretò ancor più quando per i colori dei sottobalconi (ben visibili dalla strada) proseguii deciso con bianco-puro messo a contrasto col nero-nero. Risutato: il palazzo fu definito con una certa qual derisione «Arlecchino». 
Ma ci voleva ben altro per smontare le idee di quei tre innovatori di via Melo 71, i quali avevano invece in mente di proseguire oltre, magari usando materiali e tecniche più nobili quali il mosaico. Tecnica che fu messa in opera per un altro edificio in corso Sonnino che tra l’altro ospitava il cinema Palazzo. Per realizzare i mosaici della facciata si optò per dei cartoni «modulari» nella misura 1/1 (da me disegnati con una certa difficoltà dovuta alla dimensione) usati come traccia e che, ovviamente, si avvalevano dei colori di una palette tutt’altro che soft. Malgrado il materiale prezioso quale può essere il mosaico, l’impatto dei geroglifici incombenti da cielo a terra fu ritenuto a tal punto fuori dai canoni tradizionali da far prontamente battezzare lo stabile «Ambasciata cinese». 

Il terzo palazzo della serie si trova dalle parti dell’«Arlecchino». Anche qui fu usata la tecnica del mosaico (va detto comunque che non era facile da parte dei due architetti convincere i vari costruttori a quella spesa supplementare) e, dal momento che il disegno si imperniava su cerchi e losanghe con dei punti al centro ed il tutto inquadrato in un reticolo, ecco che subito l’edificio fu battezzato: «Ah, quello del Tirassegno». 

Per il quarto palazzo, dirimpetto al Tirassegno, la facciata fu arricchita da una «fascia» lungo tutto il perimetro del piano uffici realizzata in cemento disegnato su vari strati e in vari colori sul quale si estendeva un «groviglio» realizzato in tondino di ferro verniciato bianco. In pratica l’intento discusso a lungo con Vittorio e Massimo fu quello di realizzare una «scultura» o «bassorilievo » o «installazione» (fate voi) usando gli stessi materiali poveri impiegati per la struttura portante dell’edificio. 
Quinto in ordine di tempo (ma lì ci misi volutamente poco di mio) l’edificio di corso Vittorio Veneto verso la Fiera del Levante. Un vero e proprio omaggio «musivo» al grande Piet Mondrian che, con le sue linee incrociate su fondo bianco e rare campiture di colori netti e decisi, non si sa bene se classificarlo «un pittore prestato all’architettura» o «un architetto prestato alla pittura». Ecco spiegato il perché della unanime scelta del Maestro olandese. 

Così filavano i tre di via Melo 71 che più di una volta sicuramente si domandarono se i baresi avessero mai capito che lì, su quella facciata c’era (e c’è, come ancora ci sono le altre, tutte ben conservate meno quella di via Dalmazia) un Mondrian per una volta sottratto a un Museo e offerto ai cittadini. Per forza di cose la serie si interruppe giacché il ghiaccio era ormai rotto. E tutto quanto sopra descritto era stato realizzato nel concorde scopo di effettuare (come oggi dicono gli snob da salotto) una «provocazione» in chiave astratta, sotto forma di murales-ante litteram in quella Bari sonnacchiosa nei brumosi primi anni ‘50. A maggior riprova che di provocazione si trattò, sta il fatto che quando quasi 50 anni dopo mi accinsi a dipingere la «Porta Bari», il murales dello Stadio della Vittoria del 1997 (barche, faro, luna) non ci fu nessuno che pensò lontanamente di affibbiarle un soprannome, giacchè non c’era da interpretare sarcasticamente veruna scandalosa «astrazione». O più probabilmente perché, in quel recente passato, era già di moda non scandalizzarsi più di niente. Contesto fermamente perciò, alla luce dei fatti esposti ed alla «irripetibile» oscillazione dei mobiles simil-Calder (giacchè in via Melo 71, al posto delle volte a vela, ora c’è un razionale palazzo di 9 piani, firmato manco a dirlo Chiaia-Napolitano) contesto, dicevo, la indubbia, sebben mal riposta, causticità di quel critico d’arte che, in quei primi anni ‘50 su «La Fiera letteraria» (testata culturale ormai sparita) sentenziò «che c’era più distanza tra Bari e Roma (ovvero Bari e Milano) di quanta ce ne fosse con il deserto del Gobi».
Privacy Policy Cookie Policy