Vittime e carnefice confusi nell'applauso
Nel caldo soffocante di un pomeriggio d'agosto, migliaia di cittadini si sono raccolti ieri a Galatone per dare l'addio a quattro dei sette giovani morti sabato notte in un incidente stradale. Esequie solenni, organizzate nella piazza del Santuario per consentire a quella gran folla di partecipare. I sindaci con la fascia, le autorità, i gonfaloni, le frasi di rito, i parenti e gli amici affranti, la gente comune sgomenta e commossa. E poi gli applausi, un mare di applausi scroscianti partiti senza bisogno di alcuna claque, deflagrati in modo spontaneo al passaggio delle quattro bare portate in spalla. Tutti trattati da martiri, tutti celebrati come eroi.
Ma cosa c'è di eroico nel comportamento del giovane (un morto fra quei quattro) che dopo aver caricato la sua microscopica utilitaria di quattro passeggeri più lui (che fanno cinque), si è lanciato per scelta a 160 chilometri orari su una stradetta provinciale buia e stretta dove al massimo si poteva andare a 50? Come può essere trattato da eroe colui che alla guida di quel proiettile su gomma ha imboccato deliberatamente una curva a tale velocità da perderne infine il controllo, uccidendo oltre a sé stesso altri sei giovani? Eroi, al massimo, possono considerarsi le vittime impotenti di una tragedia e mai colui o coloro che la determinano.
Nella consueta retorica del dolore, invece, le lacrime annebbiano la vista al punto da impedire ogni distinzione. Nelle chiese e nelle piazze d'Italia (quindi non solo nel Salento) le bare con i morti in incidente stradale sono sempre una accanto all'altra, senza che nessuno abbia mai il coraggio di decretare per i morti innocenti onori diversi da quelli riservati ai morti colpevoli. Applausi per tutti, in una fastidiosa confusione che non trova riscontro in nessun'altra storia tragica nella quale martire e carnefice si siano trovati loro malgrado a morire insieme. È come se gioielliere e rapinatore, caduti nel medesimo conflitto a fuoco, fossero sepolti con identica solennità.
In Israele, al contrario, squadre di religiosi sono addirittura addette a separare frammenti di resti umani, quando le esplosioni kamikaze mischiano il sangue ebreo a quello terrorista, mentre l'attentatore che si è fatto esplodere non viene neppure conteggiato nel bilancio del massacro. E che non sembrino paralleli azzardati. Crediamo davvero ci sia molta differenza fra chi entra in banca e magari preso dal panico fa strage fra i clienti, da chi la strage la compie alla guida di un'autovettura lanciata a velocità folle? Non basta la morte del colpevole per estinguerne le colpe.
E qui il punto non riguarda il dolore delle famiglie, di tutte questa volta, senza distinzione, che merita rispetto e solidarietà. Né il punto è la condanna da riservare a qualcuno, questione che deve invece restare demandata alla giustizia. Il vero nodo è il messaggio che quell'applauso indistinto trasmette: quando tutto diventa spettacolo, e ogni spettacolo diventa esempio, trattare alla stregua di un eroe chi ha guidato in spregio a ogni regola finendo con l'uccidere sei ragazzi innocenti (o uno, o dieci, che importa), significa capovolgere in modo irrimediabile i valori di una convivenza civile. Significa negare in chi sopravvive, soprattutto nei più giovani, il significato enorme che deve avere la Responsabilità.
«La vita è un bene prezioso, dobbiamo prendere posizione e darne testimonianza», ha detto ieri il vescovo di Nardò Domenico Caliandro officiando il rito funebre. Nessun atto d'accusa, ma la richiesta forte di dissociarsi «da cose futili come la droga, l'alcol o la velocità». La risposta di fronte a tragedie simili, e proprio per onorare al meglio le giovani vite spezzate, invece del battimani dovrebbe quindi essere il silenzio. Un profondo, addolorato, silenzio che suoni come rimprovero collettivo, piuttosto che come uno sconfortante elogio.
Ma cosa c'è di eroico nel comportamento del giovane (un morto fra quei quattro) che dopo aver caricato la sua microscopica utilitaria di quattro passeggeri più lui (che fanno cinque), si è lanciato per scelta a 160 chilometri orari su una stradetta provinciale buia e stretta dove al massimo si poteva andare a 50? Come può essere trattato da eroe colui che alla guida di quel proiettile su gomma ha imboccato deliberatamente una curva a tale velocità da perderne infine il controllo, uccidendo oltre a sé stesso altri sei giovani? Eroi, al massimo, possono considerarsi le vittime impotenti di una tragedia e mai colui o coloro che la determinano.
Nella consueta retorica del dolore, invece, le lacrime annebbiano la vista al punto da impedire ogni distinzione. Nelle chiese e nelle piazze d'Italia (quindi non solo nel Salento) le bare con i morti in incidente stradale sono sempre una accanto all'altra, senza che nessuno abbia mai il coraggio di decretare per i morti innocenti onori diversi da quelli riservati ai morti colpevoli. Applausi per tutti, in una fastidiosa confusione che non trova riscontro in nessun'altra storia tragica nella quale martire e carnefice si siano trovati loro malgrado a morire insieme. È come se gioielliere e rapinatore, caduti nel medesimo conflitto a fuoco, fossero sepolti con identica solennità.
In Israele, al contrario, squadre di religiosi sono addirittura addette a separare frammenti di resti umani, quando le esplosioni kamikaze mischiano il sangue ebreo a quello terrorista, mentre l'attentatore che si è fatto esplodere non viene neppure conteggiato nel bilancio del massacro. E che non sembrino paralleli azzardati. Crediamo davvero ci sia molta differenza fra chi entra in banca e magari preso dal panico fa strage fra i clienti, da chi la strage la compie alla guida di un'autovettura lanciata a velocità folle? Non basta la morte del colpevole per estinguerne le colpe.
E qui il punto non riguarda il dolore delle famiglie, di tutte questa volta, senza distinzione, che merita rispetto e solidarietà. Né il punto è la condanna da riservare a qualcuno, questione che deve invece restare demandata alla giustizia. Il vero nodo è il messaggio che quell'applauso indistinto trasmette: quando tutto diventa spettacolo, e ogni spettacolo diventa esempio, trattare alla stregua di un eroe chi ha guidato in spregio a ogni regola finendo con l'uccidere sei ragazzi innocenti (o uno, o dieci, che importa), significa capovolgere in modo irrimediabile i valori di una convivenza civile. Significa negare in chi sopravvive, soprattutto nei più giovani, il significato enorme che deve avere la Responsabilità.
«La vita è un bene prezioso, dobbiamo prendere posizione e darne testimonianza», ha detto ieri il vescovo di Nardò Domenico Caliandro officiando il rito funebre. Nessun atto d'accusa, ma la richiesta forte di dissociarsi «da cose futili come la droga, l'alcol o la velocità». La risposta di fronte a tragedie simili, e proprio per onorare al meglio le giovani vite spezzate, invece del battimani dovrebbe quindi essere il silenzio. Un profondo, addolorato, silenzio che suoni come rimprovero collettivo, piuttosto che come uno sconfortante elogio.