Finito come Carlito, braccato dal suo passato
di DAVIDE GRITTANI
Come Carlito Brigante, il portoricano inseguito dal suo destino quando pensava di esserselo messo alle spalle (magistrale l’inter pretazione di Al Pacino in «Carlito’s way»). Niente da fare, da quella vita non ci si dimette. Come le metastasi dormienti di un cancro, prima o poi si fanno vive per finire il lavoro cominciato dalle cellule estirpate. Giosué aveva provato a sbarazzarsene, ci aveva provato espiando una lunga pena (che lui ha sempre ritenuto «ingiusta», rivendicando in ogni sede «la totale estraneità al Bacardi») e ci aveva provato consegnandosi alle pagine di un libro testamento da cui traspariva (persino) un po’ d’umanità.
Giosuè aveva provato a sbarazzarsi dei suoi abiti, ma è evidente che nessun candeggio avrebbe potuto restituirli immacolati. E’ proprio da qui che parte il nostro (recente) ricordo di Giosué Rizzi. Dall’appello con cui chiosa felicemente il suo «Giosuè Rizzi, giudizio e pregiudizio » (di Giosuè Rizzi e Angelo Cavallo, Perdisa Pop, Bologna 2011), uscito la scorsa primavera tra non poche polemiche. «Ai giovani voglio dire che non vale proprio la pena. Per nessun motivo raccomanderei di seguire le mie orme».
Già, si era rivolto ai giovani Giosué: affinché non vivessero come lui. E solo lui sapeva quanto questa invocazione fosse, anche solo indirettamente, riservata alla figlia: l’ultima persona «per cui vale ancora la pena di vivere» commentava con un po’ di commozione. Invece, quando si dice la nemesi, è stato proprio di fronte ai giovani che ha tirato l’ultima boccata d’ossigeno: di fronte a una scuola, lui che avrebbe voluto studiare di più ma «che non andava molto d’accordo con i libri». Pochi istanti prima della campanella, pochi istanti prima che i ragazzi varcassero il cancello che separa la scuola dalla vita: le promesse dalla realtà. Dopo la scarcerazione Giosuè Rizzi aveva preso a dipingere e ad apprezzare i ritmi rarefatti dello yoga, e proprio per merito di queste gioie un po’ tardive amava commentare «questa vita me lo sono scelta io, l’ho voluta così e adesso me la tengo».
Una vita violenta, ma se possibile molto più disperata dello storico romanzo di Pier Paolo Pasolini. Una vita recuperata, quella a cui aveva deciso di dedicarsi sapendo perfettamente che le radici cresciute nel terriccio della malavita erano ormai troppo profonde per poterle recidere all’improvviso. Nella sua vita Giosué Rizzi ha trascorso circa 14mila giorni in carcere, decisamente troppi per raddrizzarla. Tuttavia ha tentato, con grande volontà e coraggio (questo va detto) di ricomporre i cocci di un cammino spavaldo ed epico al tempo stesso, crudele e incredibilmente letterario. «Ho iniziato a cambiare mentalità - scrive nel suo romanzo -. Pian piano mi sto calmando. Non mi arrabbio più per niente. Prima di reagire e perdere il controllo ci ragiono su. Voglio impiegare il mio tempo con la pittura, il lavoro, lo studio, voglio fare corsi al computer, mi voglio dedicare allo sport». Ma aveva capito, fin da subito, che questa espiazione sarebbe stata durissima, che tra la sua volontà e la sua effettiva credibilità si trattava di solcare degli oceani. Il primo frontale con la realtà si consuma lo scorso 11 marzo, quando «per motivi di ordine pubblico» gli fu negato di presenziare alla presentazione del libro: c’erano tutti, dai suoi famigliari ai suoi amici, da suo fratello a quello che (dopo l’omicidio di ieri) sarebbe diventato il suo biografo ufficiale (Angelo Cavallo). Ma non c’era lui, umiliato dalla sua stessa violenza a starsene a casa nel giorno in cui tutta la città aspettava che spegnesse la prima candelina della sua nuova vita. Un compleanno che non c’è mai stato, quasi una predizione.
E’ morto come un francese, inchinandosi al lato guida e non verso i suoi killer. E’ morto come un francese, lui che pasteggiava caviale e che beveva champagne e whisky. «Guido una vespa bianca - scrive a pag. 89 del suo romanzo criminale -. Mi fermo a prendere un mio amico, noto ultrà del Foggia. Ho lo smoking e il papillon. Gli chiedo se vuol finire la serata con me e lui accetta. Andiamo a casa mia e mi metto lo smoking anch’io. Decidiamo di passare la serata in una sala da ballo fuori città. A metà strada siamo colti da un forte acquazzone. E’ impossibile proseguire. Tutti inzuppati andiamo al bar elegante. Ci sediamo al tavolino. L’acqua scende dagli smoking bagnando mezzo locale. Ordino una bottiglia di champagne, tutti ci guardano strani. Beviamo, paghiamo, lasciamo la mancia e ce ne andiamo in sella alla vespa, sotto l’acquazzone».
E’ morto come un francese, lui che all’ultimo appuntamento s’è fatto trovare in jeans, con la solita pashmina e un paio di occhiali distinti. Lui che da un grande francese ha tratto l’epigrafe del suo libro, praticamente quella della sua esistenza. Da Victor Hugo: «La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna».
Come Carlito Brigante, il portoricano inseguito dal suo destino quando pensava di esserselo messo alle spalle (magistrale l’inter pretazione di Al Pacino in «Carlito’s way»). Niente da fare, da quella vita non ci si dimette. Come le metastasi dormienti di un cancro, prima o poi si fanno vive per finire il lavoro cominciato dalle cellule estirpate. Giosué aveva provato a sbarazzarsene, ci aveva provato espiando una lunga pena (che lui ha sempre ritenuto «ingiusta», rivendicando in ogni sede «la totale estraneità al Bacardi») e ci aveva provato consegnandosi alle pagine di un libro testamento da cui traspariva (persino) un po’ d’umanità.
Giosuè aveva provato a sbarazzarsi dei suoi abiti, ma è evidente che nessun candeggio avrebbe potuto restituirli immacolati. E’ proprio da qui che parte il nostro (recente) ricordo di Giosué Rizzi. Dall’appello con cui chiosa felicemente il suo «Giosuè Rizzi, giudizio e pregiudizio » (di Giosuè Rizzi e Angelo Cavallo, Perdisa Pop, Bologna 2011), uscito la scorsa primavera tra non poche polemiche. «Ai giovani voglio dire che non vale proprio la pena. Per nessun motivo raccomanderei di seguire le mie orme».
Già, si era rivolto ai giovani Giosué: affinché non vivessero come lui. E solo lui sapeva quanto questa invocazione fosse, anche solo indirettamente, riservata alla figlia: l’ultima persona «per cui vale ancora la pena di vivere» commentava con un po’ di commozione. Invece, quando si dice la nemesi, è stato proprio di fronte ai giovani che ha tirato l’ultima boccata d’ossigeno: di fronte a una scuola, lui che avrebbe voluto studiare di più ma «che non andava molto d’accordo con i libri». Pochi istanti prima della campanella, pochi istanti prima che i ragazzi varcassero il cancello che separa la scuola dalla vita: le promesse dalla realtà. Dopo la scarcerazione Giosuè Rizzi aveva preso a dipingere e ad apprezzare i ritmi rarefatti dello yoga, e proprio per merito di queste gioie un po’ tardive amava commentare «questa vita me lo sono scelta io, l’ho voluta così e adesso me la tengo».
Una vita violenta, ma se possibile molto più disperata dello storico romanzo di Pier Paolo Pasolini. Una vita recuperata, quella a cui aveva deciso di dedicarsi sapendo perfettamente che le radici cresciute nel terriccio della malavita erano ormai troppo profonde per poterle recidere all’improvviso. Nella sua vita Giosué Rizzi ha trascorso circa 14mila giorni in carcere, decisamente troppi per raddrizzarla. Tuttavia ha tentato, con grande volontà e coraggio (questo va detto) di ricomporre i cocci di un cammino spavaldo ed epico al tempo stesso, crudele e incredibilmente letterario. «Ho iniziato a cambiare mentalità - scrive nel suo romanzo -. Pian piano mi sto calmando. Non mi arrabbio più per niente. Prima di reagire e perdere il controllo ci ragiono su. Voglio impiegare il mio tempo con la pittura, il lavoro, lo studio, voglio fare corsi al computer, mi voglio dedicare allo sport». Ma aveva capito, fin da subito, che questa espiazione sarebbe stata durissima, che tra la sua volontà e la sua effettiva credibilità si trattava di solcare degli oceani. Il primo frontale con la realtà si consuma lo scorso 11 marzo, quando «per motivi di ordine pubblico» gli fu negato di presenziare alla presentazione del libro: c’erano tutti, dai suoi famigliari ai suoi amici, da suo fratello a quello che (dopo l’omicidio di ieri) sarebbe diventato il suo biografo ufficiale (Angelo Cavallo). Ma non c’era lui, umiliato dalla sua stessa violenza a starsene a casa nel giorno in cui tutta la città aspettava che spegnesse la prima candelina della sua nuova vita. Un compleanno che non c’è mai stato, quasi una predizione.
E’ morto come un francese, inchinandosi al lato guida e non verso i suoi killer. E’ morto come un francese, lui che pasteggiava caviale e che beveva champagne e whisky. «Guido una vespa bianca - scrive a pag. 89 del suo romanzo criminale -. Mi fermo a prendere un mio amico, noto ultrà del Foggia. Ho lo smoking e il papillon. Gli chiedo se vuol finire la serata con me e lui accetta. Andiamo a casa mia e mi metto lo smoking anch’io. Decidiamo di passare la serata in una sala da ballo fuori città. A metà strada siamo colti da un forte acquazzone. E’ impossibile proseguire. Tutti inzuppati andiamo al bar elegante. Ci sediamo al tavolino. L’acqua scende dagli smoking bagnando mezzo locale. Ordino una bottiglia di champagne, tutti ci guardano strani. Beviamo, paghiamo, lasciamo la mancia e ce ne andiamo in sella alla vespa, sotto l’acquazzone».
E’ morto come un francese, lui che all’ultimo appuntamento s’è fatto trovare in jeans, con la solita pashmina e un paio di occhiali distinti. Lui che da un grande francese ha tratto l’epigrafe del suo libro, praticamente quella della sua esistenza. Da Victor Hugo: «La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna».