«Il mio film è un ritratto di quello che noi esseri umani facciamo gli uni agli altri. E nasce dal mio sentimento di vergogna. Lo considero il mio contributo ai negoziati di pace in varie parti del mondo». Parla così la regista finlandese Pirjo Honkasalo, che alla Mostra di Venezia presenta nella sezione Orizzonti «Le tre stanze della melanconia», un lungometraggio-documento sugli orfani russi addestrati alla guerra contro i ceceni ed orfani ceceni i cui genitori sono stati uccisi dai russi.
Alla conferenza stampa di presentazione ufficiale, la regista che non è nuova ai film documento di denuncia, premette subito: «Viviamo con comprensione e dolore la tragedia delle due ragazze italiane rapite».
Poi, parlando del film, aggiunge «tutti noi parliamo spesso di guerre e di atti terroristici ma quello che fa arrabbiare è che non si discute abbastanza delle cause. Spero che questo film, che mostra due facce della stessa medaglia, faccia pensare proprio a questo, a quello che c'è dietro».
Nel film sia i bambini-soldato russi che gli orfani ceceni non sono attori, ma ripresi proprio come in un documentario. Ma la regista ci tiene a sottolineare: «Per me il documentario è un genere molto soggettivo. Certo, le immagini dei bambini sono documento puro ma la scelta di girare e montare delle scene piuttosto che altre rendono questo lungometraggio un film a tutti gli effetti».
Sia la regista che la produttrice Kristiina Pervila non nascondono le enormi difficoltà incontrate per girare in Russia ma soprattutto in Cecenia: «Ci sono voluti quasi quattro anni di lavorazione -spiega la produttrice- perchè dopo lo scoppio della guerra i russi si sono inventati una serie di nuovi permessi necessari per girare in esterno». «Abbiamo incontrato enormi difficoltà. In alcuni momenti -aggiunge la regista- è stato quasi impossibile girare e senza il grande impegno della produzione avremmo finito per arrenderci».
«Il problema -prosegue la regista- è che il Cremlino censura l'informazione sulla Cecenia. Sappiamo solo degli atti terroristici. Ma lì ogni giorno c'è gente che viene prelevata nelle case e non torna più. E' irrealistico dire che si tratta di un problema politica interna della Russia». Quanto al registro narrativo del film, che mantiene la giusta distanza emotiva dai fatti che racconta, senza cadere nè nel cinismo nè nel patetico, la regista ammette che su questo punto si concentra gran parte del suo lavoro: «Per me è fondamentale mantenere questo equilibrio, perchè solo così il pubblico può trovare la propria distanza. Io non propongo emozioni pret-a-porter».
A chi gli chiede come scelga i soggetti dei propri film, la regista spiega: «Senz'altro c'è militanza, impegno e compassione in queste scelte ma soprattutto c'è la vergogna che sento per quello che accade all'umanità. Anche questo film, però, non è un film politico come quelli che si facevano negli anni '60, dove si trova subito il colpevole, qui la colpa è anche un po' mia ed è necessario essere consapevoli di questo per potersi guardare allo specchio», conclude.
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