Letteratura
Nel cuore di tenebra del nostro presente con «XY» di Veronesi
Nel romanzo c'è la crisi della razionalità e della scienza che oggi il Covid ha reso palese
«Un fatto non può “tornare” come torna un conto, perché noi non conosciamo tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile, ha una parte troppo grande». È l’epigrafe dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt a un romanzo tornato in libreria dieci anni dopo la prima pubblicazione. Parliamo di XY di Sandro Veronesi, che uscì per i tipi di Fandango Libri nel 2010 e ora viene riproposto dalla Nave di Teseo con la quale Veronesi nel 2020 ha vinto il suo secondo premio Strega grazie a Il colibrì (il primo se l’aggiudicò nel 2006 per Caos calmo).
L’enigma era già nel titolo criptico e nella citazione in esergo, ma è quasi ovvio ricordare che da alcuni mesi in qua la realtà governata dal Caso fa parte del nostro mondo vissuto a causa della pandemia in atto. Il coronavirus ha minato alle radici il credo incondizionato nella Dea Ragione e tra le conseguenze paradossali, almeno in Italia, di recente ha trasformato il giallo in un colore «consolatorio». È gialla infatti la relativa «zona di conforto» rispetto alle aree arancioni e rosse sulla scala del pericolo crescente nella circolazione geografica del morbo. Del resto, la stessa perdurante egemonia del giallo sugli altri generi letterari non corrisponde forse a una edulcorazione del mistero? Sapere fin dal principio che sarà individuato un colpevole pone il lettore al riparo dall’ansia delle ombre, di ciò che non torna.
Invece XY è un giallo irrisolto perché irrisolvibile... «Di colpo, tutto era cambiato». La storia si apre con una strage che ha dell’assurdo, nel villaggio immaginario di Borgo San Giuda, sperduto tra le Alpi del Trentino, dove vengono rinvenuti undici corpi senza vita, martoriati, sfigurati, vittime di fantasiose e macabre variazioni al clou col cadavere sbranato da uno squalo in alta montagna! A dominare la scena è il totem terrificante di un grande albero rosso, irrorato del sangue ghiacciato di «chiunque» (stando all’esame del DNA). Un incubo privo di motivazioni o spiegazioni se non quelle fallaci, illusorie, balbettanti che gli investigatori cercano di offrire - invano - a una razionalità vacillante. Attentato? Disastro radioattivo? E che diavolo c’entrano gli squali?
Fra gli inquirenti c’è un magistrato reduce dalla separazione con una trentenne aspirante psicoanalista, Giovanna Gassion, cui è capitata - nelle stesse ore della strage - la singolare riapertura della cicatrice di una ferita adolescenziale a una mano. Sarà lei, e non certo lui, a inoltrarsi nel cuore di tenebra degli accadimenti e, senza volerlo, a validare nella prassi quotidiana la disciplina freudiana che contempla il faccia a faccia con l’ineffabile.
Giovanna infatti sopraggiunge a Borgo San Giuda come psichiatra della ASL per curare i quarantadue abitanti, perlopiù divisi in minuscoli clan familiari, in preda allo shock che ha aggravato le condizioni di estremo isolamento, di bizzarria caratteriale, di stupidità endogamica. Una solitudine che ghermisce chiunque si spinga fin lassù, giacché un’alta roccia sovrastante il villaggio inibisce le comunicazioni telefoniche, zittisce i cellulari e internet, frustra «la vita in diretta» del circo mediatico che inevitabilmente è calamitato sui luoghi dell’efferata Avetrana dolomitica, per fare un riferimento di cronaca alla cittadina pugliese dove nel 2010 si consumò l’omicidio di Sarah Scazzi. San Giuda è un cono d’ombra, è silenzio ed è neve, è nulla ed è oblio, è memoria ancestrale di pulsioni e archetipi per certi versi biblici. Fin dal nome apparentemente dedicato all’apostolo traditore di Gesù e invece pregno di uno spirito settario, vivificato da don Ermete, il parroco cinquantenne del borgo, reduce da esperienze in località esotiche e pericolose, parimenti consacrate a San Giuda.
Nel dialogo tra la dottoressa e il sacerdote, tra la scienza e la fede, e nella disponibilità di entrambi a inserirsi nel liber idiotarum degli abitanti, lentamente affiora la nozione che nessuna «verità» sia possibile. «Abbiamo davanti un mistero enorme, come possiamo pretendere di scioglierlo? Accontentiamoci di osservarlo», dice il prete. «Senza memoria né desiderio», chiosa lei, citando Wilfred Bion, psicoanalista britannico nato in India che nel suo trattato Il cambiamento catastrofico (1966) invitava a «tollerare l’insaturo, il vuoto, l’assenza di senso, senza preoccuparsi di pervenire alla comprensione».
È questa «capacità negativa», ovvero la rinuncia al delirio di onniscienza, la chiave di volta e la soluzione del tragico. La trama è ricchissima e oltretutto istoriata di giochi linguistici e di citazioni onomastiche (i cognomi dei personaggi sono scelti tra quelli anagrafici di personaggi illustri, da Laura «Antonaz» Antonelli alla stessa Édith Giovanna «Gassion» Piaf). Tuttavia, il racconto si placa nella sospensione dell’agito, trova senso nelle pause del dialogo, negli interstizi o nel «neutro» della vita quotidiana cari a Roland Barthes.
La scrittura nitida e avvincente di Veronesi fa il resto, rendendo XY prezioso nell’accettazione del lutto come possibile spinta vitale, al pari di quanto accadrà nel Colibrì. Per dirla giusto con Freud, la finitezza coincide con la bellezza di essere al mondo.
«XY» di Sandro Veronesi (La Nave di Teseo ed., pagg. 448, euro 14,25)