il libro
«Chiamiamo il babbo», le figlie Paola e Silvia raccontano Ettore Scola in famiglia e sul set
Le figlie del regista in un volume ricco di aneddoti esilaranti e tenerissimi
Che strano chiamarsi Ettore Euplio Emidio. Era il nome completo di Ettore Scola, come rivelano le figlie Paola e Silvia in un commovente memoir edito da Rizzoli, Chiamiamo il babbo. Il titolo è mutuato dalla battuta di un film con Totò che va dal dentista in preda al dolore per un ascesso e si ritrova al cospetto del rampollo neolaureato del medico di fiducia, decisamente non all’altezza. Allora Totò soffrendo invoca: «Chiamiamo il babbo! Chiamiamo il babbo!». Ecco, il libro di Paola e Silvia Scola è un lessico familiare nutrito di espressioni tipiche e «segrete», di esilaranti modi di dire in uso nella cerchia allargata degli affetti che include mezzo cinema italiano (De Sica, Amidei, Montaldo, Pasolini, Troisi...), di ricordi estratti da un album ricco di aneddoti tenerissimi e non meno divertenti, e di incroci tra arte e politica, visto che il padre fu per una vita impegnato a sinistra con il Pci.
Le autrici si alternano capitolo dopo capitolo nella stesura del testo seguendo un fil rouge condiviso. Entrambe hanno cominciato a lavorare nella «bottega» di Scola, il quale si considerò sempre un artigiano del cinema (e che artigiano!), coerente con il lungo apprendistato da disegnatore umoristico e poi come sceneggiatore, uno dei più importanti della commedia all’italiana, da Un americano a Roma a Il sorpasso, da I mostri a Io la conoscevo bene... e scusate se è poco! Paola è stata segretaria di edizione, aiuto regista e addetta al casting, nonché sceneggiatrice; Silvia invece si è sempre dedicata alla scrittura, tra l’altro collaborando alla stesura di tre pellicole paterne, Che ora è, La cena e Concorrenza sleale. Insieme hanno già firmato un film-tributo, Ridendo e scherzando, con Pif nel ruolo di intervistatore di Scola, uscito poco dopo la sua scomparsa, a 84 anni, il 19 gennaio 2016.
Ma torniamo all’anagrafe. Scrive Silvia: «Penso proprio che fosse una deformazione professionale: quella regola numero uno dei contratti con i produttori, fare ridere, papà e tutti loro se la portavano anche a casa... Per esempio, in privato e al riparo da occhi indiscreti, si divertiva a recitarci il suo pomposo nome per intero, “Ettore Euplio Emidio Scola”, fingendo di darsi grandi arie: sia per Ettore, il gentile eroe omerico; sia per Euplio, Santo patrono di Trevico, il paesino in provincia di Avellino dove era nato; sia per Emidio, nientemeno che “semidio”». Nomen omen, ammonivano gli antichi romani, «il destino nel nome» e in effetti il Nostro è stato uno di quei giganti che hanno vissuto amato creato più di quanto un’unica vita consentirebbe: incredibile, larger-than-life, per dirla stavolta in inglese. Sicché il battesimo iliaco e consacrato alle radici irpine, nonché il cognome scolastico ovvero liberatorio dei fluidi impuri, debbono pur aver influenzato un carattere sfaccettato, complesso, generoso fin quasi allo sperpero, onnivoro di esperienze... Fumatore impenitente anche dopo il primo infarto che lo colpì cinquantenne mentre girava Ballando ballando a Parigi (Scola rimase convinto che a salvargli la vita furono soltanto l’efficienza e l’umanità dei medici d’Oltralpe), era ghiotto di uova sode che divorava a dozzine come madeleine proustiane dell’infanzia. Un po’ come il suo grande amico Marcello Mastroianni, che andava pazzo per la pasta e fagioli, arrivando ad accettare o meno un film in funzione dei luoghi dove la sapessero cucinare.
Ettore Scola è fra i maggiori registi europei del secondo ‘900, tuttavia era guardingo dal lasciarsi monumentare, tanto da riporre la maggior parte dei premi ricevuti sul terrazzo, esposti alle intemperie, come leggiamo nel libro. Due anni e mezzo prima di mancare, nel 2013, era addirittura tornato sul set e quindi alla Mostra di Venezia con Che strano chiamarsi Federico, un omaggio a Fellini cui lo affratellò la passione per i disegni e i sogni in celluloide. Originario appunto della minuscola e gelida Trevico, da cui ancora bambino si trasferì a Roma con la famiglia per seguire il padre medico, egli era rimasto - come Fellini - un provinciale curioso di ogni piega manifesta o nascosta della capitale, dove già al liceo classico incontra l’amore, Gigliola Fantoni, che diventerà sua moglie dopo nove anni di fidanzamento sorvegliatissimo dalla famiglia sarda di lei. Ma Scola rimase assai legato al Sud e in particolare negli ultimi anni era di casa a Bari, grazie al Bif&st di cui aveva accettato la presidenza propostagli dall’amico Felice Laudadio.
Scola nasce nel 1931 in cui esordì nelle edicole la rivista umoristica «Marc’Aurelio» e proprio sulle colonne care ad Attalo, Zavattini, Marchesi e allo stesso Fellini prenderà a sbeffeggiare il piccolo mondo moderno dell’Italia post-bellica in odore di boom. Sono esercizi di stile caustico in vista dell’esordio nella commedia di costume con Se permettete parliamo di donne, scritto con il compagno di sempre Ruggero Maccari. È il 1964. Da allora, per mezzo secolo, il regista è una presenza forte nella vita culturale italiana grazie a un’intelligenza sarcastica che non si compiace del cinismo. Il suo acume balzachiano per la vita è infatti temperato dal senso comunitario, perciò gli è riuscito il prodigio di essere comico e pugnace, nostalgico e temerario, individualista e popolare, poetico e marxista. Commediare la lotta di classe, per esempio, non era mica facile... «Volevamo cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi», recita una celebre battuta di C’eravamo tanto amati, scritto con Age & Scarpelli nel 1974, una struggente elegia del trasformismo che ruota intorno a un terzetto di ex partigiani (Gassman, Manfredi e Satta Flores). E c’è lo Scola militante, documentaristico sebbene «narrativo», di Trevico-Torino... Viaggio nel Fiat-Nam osteggiato a suo tempo dall’avvocato Agnelli che gli impedì di girare nella fabbrica di Mirafiori.
Senza dimenticare un cortometraggio di appena nove minuti, titolo ’43-’97, che racconta la fuga di un bambino durante il rastrellamento nazista nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943. Rifugiatosi in un cinema, il piccolo protagonista «attraversa il tempo» fino al 1997, assistendo alle sequenze simboliche del cinema italiano, da Roma città aperta di Rossellini a La tregua di Rosi, finché non si accendono le luci in sala. Il bambino è ormai invecchiato e rivolge un sorriso di complicità a un altro ragazzino, un nero, che a sua volta cerca scampo da un raid razzista. Nel volume il breve film è annoverato da Paola tra i «4 capolavori e ½» di Scola, a suggello del poker di assi composto da C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare e La famiglia.
«Non scrivete scene madri. Scrivete scene FIGLIE!». Silvia Scola cita Furio Scarpelli che spronava gli allievi a coltivare con umiltà la «sottrazione», al pari del dettaglio, del particolare e dell’inesausta curiosità per i personaggi che, non a caso, sono stati determinanti nel concepire i film di Scola diventati storici, capaci di scandire intere stagioni dal primo centro-sinistra al crollo del Muro di Berlino. E tra un termine e l’altro del gergo da «cinematografari» - i «fegatelli» e gli «anelli», lo «scartafaccio» e la «Catozzo» - in fondo Chiamiamo il babbo è un bellissimo... libro-figlie. Come dite? Che cosa sono i «fegatelli»? Be’, leggetelo.