Lessico meridionale

Sempre divulgare, ma mai banalizzare

Michele Mirabella

«La scienza consiste nel sostituire un sapere che sembrava, ormai, certo, con una teoria, ovvero con qualcosa di problematico»

«La scienza consiste nel sostituire un sapere che sembrava, ormai, certo, con una teoria, ovvero con qualcosa di problematico». Così Ortega y Gasset, filosofo del concetto di umanità. E la scienza, dubitando dell’acquisito, rifiuta la rassegnazione gnoseologica per cui non varrebbe la pena della fatica del comunicare, tanto, nulla può esserlo compiutamente. La scienza nel suo costituirsi, esige di essere divulgata. Ma Ortega y Gasset, già negli anni ‘30 del 1900, allarmava su di un rischio: la divaricazione tra mezzi di comunicazione e cultura alta. E in quegli anni, la radio balbettava, non c’era la televisione, l’informatica era un presagio fantascientifico, la globalizzazione incipiente con passi deboli, anche se sicuri, e Ortega se la prendeva con la stampa: «Se il mondo cammina a testa in giù, è perché il potere della stampa è invasivo e totalitario. Il potere totalitario «dell’informazione è spirituale». Ma, noi, dei mass-media, non possiamo e né vogliamo farne a meno, siamo pronti e curiosi di squadernare i nuovi mezzi di informazione e comunicazione e pronti a polemizzare sull’Intelligenza artificiale. Intanto, grazie a questa, la scienza medica accelera i suoi passi in modo significativo. Né possiamo fare a meno di nulla dell’apparato immane di buoni giornali, come questo, che hanno imparato la lezione.

Karl Popper, filosofo, in un’intervista di molti anni or sono, ha lasciato una testimonianza di carità divulgativa. Diceva che chi fa, produce, televisione, a qualsiasi titolo e rango, dovrebbe ottenere una patente: «È, infatti, inaudito che ci siano ordini professionali di qualsiasi tipo e non esista un ordine per chi fa televisione, visto che ha un potere spirituale e culturale immenso perché è, di fatto, il più formidabile mezzo di divulgazione». Posso immaginare quanto la raccomandazione di Popper possa essere interessante per chi volesse riordinare l’immane apparato dell’informatica secondo la sua teoria sui media. Perché non dovrebbe esserci un problema etico per chi fa divulgazione, posto che non è solo un arsenale accessorio del mestiere giornalistico o culturale e scientifico che sia, ma comporta una responsabilità nel cui ambito va collocato il ruolo che si intende per la scienza e, soprattutto per la medicina nella società?

Il problema della divulgazione consiste nel rendere accettabili temi altrimenti inaccessibili, perché barricati nella roccaforte delle specificità. Mi ostino, invece, ad avventurarmi nella fantasia creativa dell’umanesimo per cui, giusto per citare, se Dante decise di rendere i suoi itinerari metafisici in volgare, avrà avuto eccellenti ragioni. Divulgare non significa banalizzare, ma, piuttosto, opporsi alla banalizzazione. Il massacro che viene perpetrato quotidianamente sulla lingua italiana dai «media» non va nella direzione della divulgazione. Divulgare non significa alleggerire la lingua delle sue preziosità e ricchezze semantiche e lessicali; anzi. Divulgare significa provvedere ad attrezzare in modo cosciente il pubblico per un uso sempre più consapevole e ricco della lingua. Significa, quindi, tradurre, non banalizzare. In questo la buona stampa specializzata è più avanti della televisione, ma indietro rispetto all’informatica. Credo che la divulgazione debba cominciare fuori dagli studi televisivi, o meglio, prima degli studi televisivi. Evidentemente il linguaggio medico, tra i tanti linguaggi scientifici, è quello che più direttamente implica l’interesse di larghi strati della popolazione. Ora, se non vogliamo far retrocedere le persone al rango di sudditi o trasformarle in consumatori, sarà bene che usiamo, prima di tutto, la lingua. Chiara, condivisa, bella. Insegnare e divulgare significa rendere opera di liberazione. Il linguaggio medico, a volte, è inestricabile: da lì si può cominciare a far chiarezza. Non sto dicendo ai medici di tradurre. Il paziente e il medico sanno di parlare linguaggi diversi e addirittura simmetrici, confabulano in un’alleanza ineluttabile, ma difficile. E comunicano le proprie solitudini: l’uno, il paziente alle prese col suo dolore che parla, diciamo cosi, con le parole del corpo umano e l’altro, il medico che interpreta con quelle del corpo biologico e della sua tecnica e dei suoi linguaggi necessariamente moderni.

Se non comunicano, la relazione medico-paziente va in rovina già dal primo incontro, se soggiace ai colpi di un’incomunicabilità che prende le mosse da due punti di partenza dissimili: la diversa nozione di corpo e la diversa cultura della comunicazione. Mi ostino, per esempio, a respingere i tecnicismi, gli anglicismi superflui, gli acronimi affastellati. In una sola intervista ho sentito «La sintomatologia offre un quadro eziologico criptogenetico per cui si richiede una TAC e un SMN per scongiurare l’ipotesi di una BPCO. Quanto al paziente con rischio di IBS il quadro diagnostico è oscuro». Quanto le sue risposte. «La scienza nel suo costituirsi, esige di essere divulgata». Ortega y Gasset.

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