L'intervista

Il professor Zanatta: «Un peronista a San Pietro. Ha esposto la sua sofferenza con una religiosità populista»

Michele De Feudis

Lo storico dell'Università di Bologna: Papa Francesco detestava l’Occidente illuminista e liberale

Prof. Loris Zanatta, docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna e autore del saggio Bergoglio, una biografia politica (Laterza), la morte del Pontefice è giunta dopo un bagno di popolo a San Pietro nella domenica di Pasqua. Un congedo in linea con la sua missione?

«Se non fosse un caso, sarebbe una scenografia per la sua morte che gli sarebbe piaciuta, perché è la morte di un religioso coerente, che ha cercato di vivere a imitazione di Cristo. La morte, esponendo la sua sofferenza, è la replica di quella di Cristo che salva l’umanità. Ha mostrato tanto il suo corpo, pur essendo debilitato, in una visione sacrificale della vita».

Ha salutato prima del congedo il pueblo di Dio.

«Il popolo per Bergoglio era un’idea, un organismo che sostanzialmente elimina o subordina l’individualità alla sua armonia o al mito dell’armonia. Questo passaggio era la cosa che più desiderava. C’è un però».

Prego.

«Dubito che il popolo che lui ha sempre invocato era il popolo dei poveri o dei diseredati. Non credo che il popolo che ha salutato fosse quello. Quello degli ultimi era a Buenos Aires e non è mai più tornato a vederlo».

Ritornando alla scelta del conclave che lo elesse…

«Fu una rottura ma non tutti ne avevano una idea della dimensione. Nella mia biografia politica cito un passaggio raccontato da un dirigente di Sant’Egidio: aveva parlato con il cardinal Martini dicendogli che l’orientamento della fazione più progressista era per Bergoglio. Martini replicò: “Beh deve essere cambiato molto Bergoglio”. In effetti fu il grande equivoco: per il cattolicesimo più influenzato dalla tradizione illuminista in Europa, c’era l’idea di un Papa che rompesse con Ratzinger, più aperto alla modernità, alle frontiere dei nuovi diritti. Ma Bergoglio è stato l’incarnazione di un cattolicesimo latino americano che ha sempre combattuto tutta la vita la tradizione illuminista e la modernità, concepita come cattolica».

Le interviste Bergoglio- Eugenio Scalfari su Repubblica?

«Hanno disorientato il mondo progressista, che ha voluto vedere in Bergoglio l’irruzione della modernità della Chiesa latino-americana, in cui aveva già additato un modello di società inclusiva e orizzontale. Ma questo corrisponde a una involuzione dei settori progressisti che, se in passato hanno creduto nella modernità della scienza e della tecnologia con errori ed orrori, ora sta ripiegando verso una visione pessimista del mondo e antimoderna. E in questo ha trovato pane per i loro denti, in Bergoglio, lottatore contro una modernità illuminista, liberale, illuminista e capitalista».

Sull’ambiente?

«I progressisti non si sono sbagliati nell’amare un Papa ecologista anticapitalista e terzomondista, ma denotano il passaggio di quest’area verso l’antimodernismo».

Le prime parole che pronunciò da San Pietro erano evocative.

«Il manifesto religioso è stato il nome: nulla di umile in quel nome. C’era l’idea tipica del cattolicesimo argentino, di farsi piccoli per dominare. La capacità di arrivare al popolo non si basa sull’invenzione, ma sul sottrarre cose, sul farsi piccoli. Non era in continuità, ma era il fondatore di una nuova religione, in una visione populista, escatologica in termini religiosi. Evocava il popolo dell’origine, innocente, senza tentazioni, corrotto dalla modernità dell’occidente liberale. La Chiesa, tornando alle origini di povertà, avrebbe redento e rigenerato il popolo. Era la terra promessa in senso reazionario, il ritorno alla purezza delle origini».

Amava Che Guevara ma aveva rapporti con la Guardia di Ferro argentina.

«C’è anche un papa peronista che piaceva a destra. Molti a sinistra sono rimasti sbigottiti quando hanno visto che aveva distanza da Salvini, ma con la Meloni si è trovato a proprio agio, al pari con i leader come Orban. Qui abbiamo vissuto la Guerra fredda, ma in Argentina e in molti paesi latino-americani, i movimenti populisti hanno contenuto quello che chiamiamo fascismo o comunismo nello stesso contenitore politico».

Le categorie dello spazio pubblico argentino…

«I montoneros invocavano il socialismo in nome di dio e patria. Non erano laici, avevano i cappellani militari. Allo stesso modo i militari invocavano la cattolicità della patria. L’Argentina non ha mai sconfitto il fascismo, lì c’è stata una competizione tra fascisti di destra e di sinistra, contro la secolarizzazione e il cosmopolitismo. E Bergoglio lo ha sempre detto. Il diavolo erano i ceti coloniali, penetrati dai valori della secolarizzazione. Nei viaggi nel Sud del Mondo denunciava proprio questo».

Considerava Giorgia Meloni una “piccola Evita”?

«Lui è sempre stato “evitista” al cento per cento. Eva era una creazione di un famoso gesuita argentino, il peronismo come un comunismo fascista. Eva era così, non le interessava la democrazia o i diritti individuali, aveva una visione religiosa del mondo, il suo popolo eletto. La Meloni si muove nella democrazia liberale, sa i limiti che non deve infrangere. Eva era l’icona della destra sociale italiana. Non dico che Francesco la vedesse come una Evita, ne riconosceva una cultura politica sociale affine».

Il rapporto con gli Usa?

«Da buon peronista, gli States erano il male, il nemico. Questo emerge dalle parole di Bergoglio negli anni 80: “Poi è arrivato prima Calvino e John Locke che hanno demolito la cristianità ispanica e corrotto il popolo”. Il protestantesimo anglosassone è stato il suo nemico per definizione che ha spezzato l’unità cristiana tra politica e religione».

Era tifoso del San Lorenzo, club di calcio argentino.

«Era così tifoso di calcio che ha abbandonato ogni strumento di comunicazione, non seguendo più le partite. I più perfidi raccontano che in Argentina nel cattolicesimo bisogna essere come il popolo per parlare in nome del popolo. Non era un appassionato di calcio, ma appariva futbolero perché il popolo lo amava».

Sul conflitto Russia-Ucraina?

«Non esistono papi guerrafondai. La corsa all’ambasciata russa dopo il 22 febbraio avvenne perché quell’invasione era stato un colpo al cuore. Aveva scommesso tanto sulla Russia. E’ sempre stato un cultore della cultura russa, invocò la Russia imperiale in piena guerra, cose inadeguate. Cosa ammirava? Suona stonato ma ha ammirato quello che Putin rivendica, la Russia patria fondata sul suo sentimento religioso, quello che il peronismo ha evocato in Argentina, religiosità e identità nazionale, il nazionalcattolicesimo argentino».

Denunciò la Nato «che abbaiava ai confini» di Mosca.

«Non ha mai detto chi era l’aggressore e l’aggredito, o quando l’ha detto poi ha sfumato il passaggio. Ha staccato non solo geopoliticamente ma anche idealmente il cattolicesimo dal suo retaggio occidentale. L’Europa che aveva perso Dio e il senso di appartenenza nazionale era il luogo della perdizione, mentre la salvezza per lui doveva arrivare dal Terzo mondo o dai popoli religiosi dell’est Europa: visitando quei Paesi diceva di evitare le contaminazioni ideologiche europee».

La sua eredità?

«Un pontificato post occidentale e post liberale. Quello che verrà dopo non possiamo prevederlo».

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