il concertone
Tutelare la tradizione: ecco la sfida da vincere
La cultura, i conflitti e quel virus ipocrita della «sanremite»
Se la Notte della Taranta è un festival di musica popolare, cresciuto dal 1998 a oggi con la missione di dare dignità, ascolto e vetrina a canti e balli della tradizione della già fu Terra d’Otranto, è evidente che deve accettare la sfida della contaminazione con l’oggi, specie se intende fruire dell’affaccio in prima serata sulla tv di Stato e addirittura ritrovarsi, come è accaduto ieri sera, ad essere la prima occasione pubblica in diretta Rai per ricordare Pippo Baudo.
Ecco, chi lo avrebbe mai detto: l’antica pizzica, tutta sofferenza, sudore, passione e tamburello, e il Pippo nazionale, insieme spassionatamente davanti gli 80mila di Melpignano. Accade, anzi è accaduto, con la naturalezza di un evento che ormai non è solo salentino ma che ha ammiratori (e critici) in tutta Italia e che non può dunque coprire con il velo dell’ipocrisia collaborazioni con i cantanti del momento che, nella quasi totalità dei casi, con la pizzica in vita loro non hanno avuto nulla a cui spartire e torneranno ai loro palchi e ai loro talent show già da oggi.
Il discrimine, oggi e sempre, è costituito da “chi contamina chi” e dall’affermazione fatta, durante la conferenza stampa di presentazione del concertone 2025, dal presidente della fondazione Notte della Taranta Massimo Bray secondo il quale la cultura non si occupa di conflitti.
Sul “chi contamina chi”, non si può non rilevare che alcune scelte artistiche fanno un po’ storcere il naso. L’eliminazione, di fatto, del corpo di ballo ha svuotato molti canti della necessaria coreografia e offerto, come nel caso della “Pizzica di San Vito”, una visuale a dir poco imbarazzante, con una decina di ballerini mascherati non si sa bene perché da una testa di gallo. Anna Castiglia, protagonista della penultima edizione di X Factor è stata molto brava nell’interpretazione di “Bedda ci dormi” così come Antonio Castrignanò ha fatto ballare tutti con “Aria caddhipulina” e “L’acqua te la Funtana”, tre hit immancabili nella scaletta del concertone e già magnificamente interpretate in passato dalle cantanti e dai cantanti dell’orchestra popolare, quest’anno apparsi un po’ ai margini.
Sulla bravura come musicista di David Krakauer non c’è dibattito ma fare il maestro concertatore è altro: serve partecipazione in tutte le esecuzioni, padronanza totale della materia, guida ferma e sicura di una struttura complessa composta da cantanti e musicisti, dialogo diretto e creativo per il quale evidentemente occorre un altro tipo di approccio e probabilmente di staff. Da questo punto di vista, non si può non ricordare, per stare ai tempi vicini, l’esperienza con Dardust, capace di fare suo il concertone dalla prima all’ultima nota.
Molto bravo e coinvolgente Giuliano Sangiorgi (dov’è la notizia?), a suo agio Ermal Meta con l’arbreshe di “Lule Lule”, un po’ forzata la presenza di Serena Brancale.
Poi c’è il tema prettamente più politico, ovvero “la cultura non si occupa di conflitti” riducendola così a un esercizio neutrale, quasi ornamentale. Ma la storia del pensiero, da Platone a oggi, mostra esattamente il contrario: la cultura nasce e cresce dentro i conflitti, e ha la funzione di renderli intellegibili, affrontabili e trasformabili.
Già i Greci avevano chiaro che la cultura non potesse essere disgiunta dal conflitto. Eraclito sosteneva che “Polemos è padre di tutte le cose”: il conflitto non è un accidente da evitare, ma il principio stesso della realtà. Platone, con i Dialoghi, mette in scena il conflitto di idee, mostrando che la verità non si conquista nel silenzio, ma nel contrasto fra posizioni opposte. Aristotele, parlando di tragedia, riconosce che l’arte drammatica educa la polis proprio attraverso la rappresentazione dei conflitti umani e politici.
Anche il pensiero contemporaneo conferma questa visione. Michel Foucault ha mostrato come la cultura non sia mai neutra, ma un campo di forze, di resistenze, di poteri in conflitto. Hannah Arendt ha scritto che la politica – e quindi la cultura pubblica – nasce dalla pluralità e dalla tensione fra le differenze, non dall’assenza di contrasti. Edward Said ha spiegato come la cultura sia spesso un terreno di lotta per la rappresentazione e il riconoscimento, soprattutto nei rapporti tra colonizzatori e colonizzati.
La cultura, dunque, non solo si occupa di conflitti, ma esiste per renderli visibili, dar loro forma, offrire linguaggi e immaginari che li trasformino in crescita collettiva. Negare questo significa ridurre la cultura a intrattenimento o decorazione, quando invece essa è – da sempre – il laboratorio in cui la società elabora i propri traumi, le proprie differenze, le proprie contraddizioni.
Proprio come la Notte della Taranta si propone di fare, e deve fare per dare un futuro a una tradizione capace di essere più forte di ogni conflitto e anche, se si vuole e senza alcuna ipocrisia, della “sanremite”.