Il punto

Speranza, idee e coraggio: l’Italia futura nel discorso di Rimini

Oscar Iarussi

Per Mattarella un discorso nitido e alato, non per questo meno concreto. Un riavvio ideale della politica alla vigilia della ripresa parlamentare settembrina

«Il senso di fraternità umana» e «la concordia sociale» come fondamento delle Istituzioni. È il richiamo inesausto alla Costituzione «dove si prevede che la Repubblica deve riconoscere, e garantire, i diritti inviolabili dell’uomo; e deve richiedere l’adempimento dei doveri, inderogabili, di solidarietà». Il valore della nostra Patria? «Frutto dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni». Ma c’è anche un accenno al «diritto al perseguimento della felicità» elencato nella Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti, le cui radici affondano nel pensiero dell’Illuminismo napoletano di Gaetano Filangieri. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intervenendo ieri al Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini ha pronunciato un discorso nitido e alato, non per questo meno concreto. Un riavvio ideale della politica alla vigilia della ripresa parlamentare settembrina, dopo giorni di dibattito sulle parole, non proprio all’insegna della concordia, contenute nel libro del generale Vannacci, cui il Capo dello Stato non ha ovviamente fatto alcun cenno.

In particolare, sul tema delle migrazioni Mattarella ha parlato di «movimenti globali», un fenomeno «che non si cancella con muri o barriere». Così è almeno da trent’anni in qua, da quando nell’agosto del 1991 all’orizzonte delle coste pugliesi si palesò la nave «Vlora» col suo carico di ventimila albanesi in arrivo dal Paese delle Aquile. Fu l’annuncio di una nuova era, la nostra, in cui la globalizzazione non «si limita» al movimento delle merci e dei capitali finanziari, ma rimette in moto le donne e gli uomini, in fuga dalle dittature o dai conflitti, dalla miseria o dalla siccità, ed in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli. Già la «Vlora» divise l’opinione pubblica e innanzitutto i cattolici: il sindaco democristiano di Bari Enrico Dalfino si espresse in favore dell’accoglienza («Sono persone»), mentre il presidente della Repubblica di allora, il democristiano Francesco Cossiga, gli dette del «cretino». Pensammo e pensiamo che avesse ragione Dalfino, ovvero che invocare blocchi navali, improbabili misure drastiche, o, peggio, non soccorrere attivamente i naufraghi può corrispondere alla retorica o alla «pancia» del momento, ma di certo non serve a offrire risposte. Dire ai migranti «non venite» o ai terribili trafficanti «vi fermeremo», non significa convincerli o bloccarli.

Del resto, nessuno mai metterebbe a repentaglio la vita di un figlio in mare aperto o lungo i cammini di frontiera impervi ed armati dalla Grecia ai Balcani fino alla Bielorussia e Polonia, se non avesse la certezza che quella vita è ancor più minacciata dal restare nel Sahel o altrove. Vi è ormai una vasta letteratura o produzione artistica che racconta ed evoca questo dramma, di recente per esempio lo struggente e scioccante romanzo Lo scafista di Stéphanie Costa (traduzione di Cettina Caliò, edizioni La Nave di Teseo) o alcuni film attesi nei prossimi giorni alla Mostra di Venezia e al Festival di Toronto: Comandante di Edoardo De Angelis sulla «legge del mare» durante la Seconda guerra mondiale (girato nelle acque di Taranto), Io capitano di Matteo Garrone, Mur di Kasia Smutniak.

I giovani di Comunione e Liberazione riuniti nel Meeting hanno applaudito a lungo Mattarella, anche nel passaggio del suo discorso sul «rinnovato umanesimo nel tempo dell’innovazione», indicato quale prospettiva da papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. I migranti, insomma, non sono una «emergenza», bensì lo stigma dei nostri anni, il portato epocale dell’Esodo, che, secondo la scrittrice americana Susan Sontag, segna e scandisce tutto il ‘900 e oltre.

L’altra sera, in una affollata conferenza a Martano (Lecce) per La Notte della Taranta, il filosofo Umberto Galimberti ha ricordato che «l’identità è il riconoscimento nello sguardo dell’Altro, è la relazione tra due o più caratteri diversi, è un dono sociale». Restiamo orfani di identità, dunque, se ci rinserriamo nelle nostre paure o fobie, se qualcuno non sogna di noi e non ci identifica come una promessa di futuro (e di felicità).

L’America è diventata grande grazie a tale promessa e se l’Europa continua a ignorarla o a esorcizzarla, non andrà lontano nella considerazione geopolitica del mondo d’oggi, dovendo oltretutto farsi perdonare secoli di colonialismo britannico, francese, spagnolo, olandese etc. Perciò fa bene Mattarella a ribadire che «occorre un impegno, finalmente concreto e costante, dell’Unione europea, e il sostegno ai Paesi di origine dei flussi migratori». «Soltanto ingressi regolari - ha detto a Rimini - sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio, sono lo strumento per stroncare il crudele traffico di esseri umani: la prospettiva, e la speranza di venire, senza costi e sofferenze disumane, indurrebbe ad attendere turni di autorizzazione legale».

Utopia? A volte è più realista della Realpolitik, del pragmatismo un po’ cinico della politica, cui altrimenti non resta che la polemica sulle risorse per l’accoglienza o le misure di sicurezza, con sindaci e prefetti in dichiarata difficoltà. In questo quadro, il cosiddetto «Piano Mattei» di aiuti all’Africa da parte del governo Meloni sembrerebbe finalmente coltivare una prospettiva mediterranea meno occasionale. Ma affinché l’Italia sia credibile sono necessari un salto culturale e una trasformazione radicale delle coscienze per quanto ardua o lenta possa essere. Come per la violenza contro le donne, anche in tema di migranti è da cambiare il paradigma o l’archetipo della politica: «Homo homini lupus di Plauto, e il presunto “stato di natura” di Thomas Hobbes, hanno, sempre, rappresentato ostacoli per la soluzione dei problemi dell’umanità», ha concluso Mattarella. Meno paura, più idee e il coraggio di attuarle: ecco il monito che viene da Rimini.

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