filosofia

L’altro Natale: Sartre e il bimbo di nome Gesù

Dorella Cianci

Il Natale degli atei è un momento altrettanto significativo, ma non è il miracolo che discende dal cielo, bensì un’esperienza che ci trattiene sulla Terra

Jean Paul Sartre non avrebbe mai voluto dar spazio all’ultraterreno, eppure è proprio da lui che si vuol partire per parlare del Natale vissuto dagli atei. Durante la sua prigionia in Germania, nel ’40, scrisse Bariona o il figlio del tuono, un testo teatrale, in cui il filosofo mise in scena la Natività. Siamo al tempo della dominazione romana sulla Giudea: nacque, in quel momento della storia, un bambino di nome Gesù. Sartre non credeva nella natura divina di quel bambino, ma ne colse comunque la portata simbolica: il volto di quel neonato, in una stalla, concentra in sé la richiesta di tenerezza e, insieme, la fragilità dell’umano. Da questa sua prospettiva, il Natale degli atei è un momento altrettanto significativo, ma non è il miracolo che discende dal cielo, bensì un’esperienza che ci trattiene sulla Terra e ci costringe a guardarci dentro.

Questa e molte altre bellissime considerazioni sono contenute nel libro del cardinale Angelo Comastri, ad oggi Vicario Generale Emerito di Sua Santità per la Città del Vaticano e Presidente della Fabbrica di San Pietro. Scrive Comastri: «Chi era Lui? […] Non possiamo dormire in questo tempo. Questo è il tempo in cui si incontra Dio, questo è il tempo in cui si può accogliere la speranza, questo è il tempo in cui ci si può lasciare abbracciare dall’Eterno, che è entrato nel tempo». E chi non crede in questa trascendenza? Il 10 dicembre del 1940, Sartre scrisse a Simone de Beauvoir: «Come autore drammatico ho sicuramente un certo talento, ho scritto una scena di un angelo che annuncia ai pastori la nascita di Cristo, che ha lasciato tutti senza fiato. Qualcuno aveva le lacrime agli occhi». Era la grandezza di una trama ben collaudata, che ci tieni da millenni sulla strada di Betlemme e questa strada non è detto che sia più povera per chi non crede in Gesù come figlio di Dio ed essenza della Trinità. Dallo sguardo di Sartre, concentrato sull’immanenza, ogni gesto – compreso un dono – diventa una scelta assoluta, un atto di libertà e di attenzione all’altro.

Fra i filosofi citati da Comastri, c’è anche Nietzsche colui che parla del «Dio che è morto». Scrisse parole tremendamente drammatiche, senza speranza e che certamente non avrebbero guardato con favore neanche alla contemporaneità di un Natale vissuto nell’orgia del consumismo: «Dio è morto, stando alle leggi degli uomini, ci vorrà ancora del tempo prima di graffiare e strappare dalle caverne degli uomini anche l’ombra di Dio». Nietzsche - si sa - non guardava in maniera benevola alla storia del Cristianesimo, ma si rendeva conto che, intanto, mentre Dio è morto, gli uomini sono in mezzo al gelo (e forse per questo motivo alcuni attendono una promessa del divenire).

Da sempre ci si interroga, con fede e senza fede, su di Lui e su questo mistero che ha fatto irruzione nel grande impero dei romani, rendendo ridicolo il potere stesso. La de Beauvoir, compagna di Sartre nel pensiero e nella vita, avrebbe spostato il ragionamento sul tema della libertà reciproca: quel Natale che festeggiamo non è la nascita di un dio, ma la possibilità che ogni essere umano ha di riplasmare la propria esistenza. È chiaro che questo discorso è molto lontano da chi guarda a Betlemme con la passione della fede, ma è anche necessario – come ci esortava papa Bergoglio – a dialogare con l’ateismo e a comprenderne radici e ragioni. Non si può certamente ignorare il fatto che proprio molti cristiani hanno lasciato che il Natale venisse deturpato ed è per questa ragione che non possiamo scandalizzarci dinanzi alla frase del grande drammaturgo Paul Claudel, il quale disse: «Stiamo buoni, perché oggi è Natale. Domani, sì domani, continueremo a servire Erode!». Alla base di questa breve riflessione, che inizia dalle pagine, come sempre profonde, del libretto di Angelo Comastri, non dobbiamo farci tentare dal giudizio verso gli altri.

Mi sembra il caso anche di citare Camus, che è forse il poeta più importante del Natale ateo. Per lui, nel cuore dell’assurdo, l’unica risposta possibile è la misura della tenerezza umana. Camus non crede nella redenzione, ma vede davvero l’uomo e vede quelle strade illuminate dal Natale, le persone che continuano a tendersi la mano nonostante tutto, anche quando il resto del mondo è indifferente (o in guerra). E allora, per tutti, il Natale diventa un’occasione e non, come credeva Bertrand Russell, un esercizio di etica minima, dove, per qualche giorno, si sospende il cinismo. Il Natale non è una tregua epistemica, non è un esperimento sociale del bene, ma è un incanto anche per cui non crede al miracolo, avvicinandosi, il più possibile, a quanto insegnò Madre Teresa di Calcutta: «Con il cuore ho preso domicilio a Betlemme. Lì si capisce cos’è che conta nella vita e che cosa dobbiamo cercare». Forse oggi non lo sanno davvero neanche a Betlemme (vista l’attualità), ma quel luogo citato dalla santa missionaria è un ritorno con cui confrontarsi ogni anno.

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