L'analisi
Nel nome del generale Ludd: assalto alle macchine
Il “luddismo” è oggetto dell’ultimo volume del giornalista americano Brian Merchant, Sangue nelle macchine (Einaudi). Un saggio prezioso, avvincente e tragico
Nel mito greco, Efesto - il dio-fabbro del fuoco e delle fucine - si serviva di una gran quantità di automi (da autòmatos): tripodi semoventi, squilli di tromba automatici e androidi dorati, equipaggiati, si direbbe oggi, di intelligenza artificiale. Racconti che suggerirono ad Aristotele, di secoli in anticipo su Marx, che l’automazione potesse «liberare» gli uomini consentendo l’abolizione della schiavitù. Si custodiva, insomma, una visione ottimistica del futuro meccanizzato. Forse perché quella civiltà era cosciente di poter governare le macchine (e «imprigionarle» nel mito era il primo passo) o forse perché gli automi erano, in realtà, poco più di un sogno. E così è stato per millenni.
Un giorno, però, le macchine arrivarono davvero. Non le portavano gli dei. E nemmeno i filosofi. Le «cupe officine sataniche», per dirla con William Blake, le portava un tipo d’uomo mai visto prima che la modernità aveva partorito dal proprio ventre. Lo descrisse perfettamente, nel 1921, la piéce R.U.R. (Rossum’s Universal Robot) del ceco Karel Capek: è la storia di uno scienziato senza scrupoli che crea un esercito di robot (robota, in ceco, è il lavoro forzato) da impiegare in fabbrica. Nessuna apertura metafisica, nessuna tensione faustiana. Solo produrre, produrre, produrre. E guadagnarci sopra. La Rivoluzione industriale che sconvolse l’Inghilterra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento fu sostanzialmente questo: l’introduzione di nuove tecnologie produttive che mutarono la piccola bottega in gigantesca fabbrica, abbassando i costi e moltiplicando i profitti. Con la copertura ideologica del laissez-faire di Adam Smith e la benevolenza del sovrano Giorgio IV, una specie di pusillanime libertino disinteressato alle sorti degli ultimi. Era l’Inghilterra di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, ma anche quella di Bridgerton per usare riferimenti familiari agli appassionati di Netflix. Grande frivolezza in una Corte assetata di eleganza e cultura cosmopolita, grandi tensioni nel corpo sociale di un Paese sconvolto dalle guerra e dai rivolgimenti in atto.
Oltre ogni falsificazione, come dettagliatamente spiegò Karl Polanyi nel suo capolavoro La grande trasformazione, la Rivoluzione industriale non impose solo un cambio di paradigma. Ma inaugurò un fenomeno fino ad allora sconosciuto: la povertà di massa. Non solo contadini sradicati e anziani abbandonati. A essere spinti ai margini furono pure, e forse soprattutto, i piccoli bottegai e i lavoratori qualificati. I tessitori, i cimatori, i magliai, i commercianti di lane. Il settore tessile fu sconvolto dall’arrivo di macchine, sempre più sofisticate, che garantivano di poter svolgere, con una minima assistenza e molto più velocemente, il lavoro che per anni era stato monopolizzato dagli operai del settore. Furono costoro a diventare i protagonisti di una lotta senza quartiere che passò alla storia con il nome di “luddismo”, oggetto dell’ultimo volume del giornalista americano Brian Merchant, Sangue nelle macchine (Einaudi). Un saggio prezioso, avvincente e tragico, da integrare, per i più volenterosi, con un altro capolavoro di questo segmento: Ribelli al futuro (Arianna, 2005) del neoluddista statunitense Kirkpatrick Sale.
Quella dei luddisti è una storia che profuma di leggenda. Nessuno può confermare se Ned Ludd sia mai esistito davvero: la tradizione vuole che sia stato il primo a sfasciare un telaio meccanico in piena rivolta contro la meccanizzazione del lavoro. E questo gli valse il titolo di “Generale”, di “Capitano” o addirittura di “Re”. I luddisti rivendicavano i propri sabotaggi e le proprie incursioni distruttive firmandosi col suo nome. Dove c’era un gruppo di rivoltosi lì c’era il Generale Ludd. Per anni la Contea di Nottingham fu attraversata dalle imprese di questo guerrigliero senza volto. Proprio lì, fra i piccoli centri urbani e la foresta di Sherwood. “Non cantare più i vecchi versi sul prode Robin Hodd / le sue imprese le ammiro poco / Canterò le gesta del generale Ludd”, recitava una canzone popolare dell’epoca.
Merchant si precipita a spiegare che i luddisti non odiavano la tecnologia in quanto tale, non erano “regressivi”, ma piuttosto valutavano l’impatto della stessa sulla comunità. E quell’impatto fu devastante. Gli operai furono licenziati, i piccoli bottegai costretti a chiudere. Fiorirono grandi fabbriche dai fumi tossici dove fu attivato quello che Marx avrebbe chiamato l’esercito industriale di riserva: bambini, donne e irlandesi. Tutta gente che rischiava di finire triturata negli ingranaggi per due spiccioli. I luddisti chiesero per anni un’introduzione graduale dei nuovi mezzi, accompagnata da paghe decenti e tutele minime per la sicurezza di chi operava in quei contesti. In pochi li ascoltarono. La grande eccezione fu Byron autore di una memorabile arringa alla Camera dei Lord. Ma non fu sufficiente. E tutto finì nel sangue con il Frame Breaking Act del 1812 che disponeva la pena di morte per chi, ormai disperato, distruggeva le macchine. Il prezzo del progresso. “Sdraiati e muori”.
Oltre duecento anni dopo, nel secolo degli androidi e dell’IA, delle Big Tech e dell’estinzione dei lavori tradizionali, la lezione dei luddisti sembra un monito per l’oggi. Merchant lo ripete a ogni passo, raccontando le tragiche vicende dei magazzinieri di Amazon e degli autisti di Uber. Qualcuno in America già invoca una reazione luddista. Spuntano forum, gruppi su Reddit, nuove sigle sindacali. Il Generale Ludd è tornato. Anzi non se n’era mai andato. E tutto il mondo è una grande foresta di Sherwood.