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L’Europa arcipelago di picchi montuosi: la catastrofe di McEwan

Lara Laviola

Ian McEwan torna al romanzo d’idee con un’ambizione rara nella narrativa contemporanea, fondendo distopia, riflessione morale e critica dei limiti della razionalità liberale

In Quello che possiamo sapere (appena uscito per i tipi di Einaudi), Ian McEwan torna al romanzo d’idee con un’ambizione rara nella narrativa contemporanea, fondendo distopia, riflessione morale e critica dei limiti della razionalità liberale. Ambientato nel 2119, il libro immagina un’Europa trasformata in un arcipelago di picchi montuosi dopo una serie di catastrofi climatiche e geopolitiche. La Gran Bretagna non esiste più, spazzata via dall’innalzamento dei mari e da una devastante onda anomala causata dall’esplosione di un ordigno nucleare russo nell’Atlantico. In questo mondo frammentato, superstite di un secolo di errori, sopravvive invece un’umanità che tenta di riorganizzarsi tra isole fisiche e isole mentali.

Il romanzo si apre con la voce di Tom Metcalfe, professore di letteratura in un’università ormai dominata dalle scienze esatte. Tom vive isolato su un piccolo lembo di terra, dove la cultura umanistica è diventata quasi una reliquia, e dedica le sue energie alla ricostruzione di un poema perduto del nostro presente: A Corona for Vivien, opera di un misterioso poeta del XXI secolo, Francis Blundy. Questo progetto filologico, apparentemente anacronistico in un mondo ridotto in macerie, diventa la lente attraverso cui McEwan riflette sulla fragilità della memoria, sui limiti della conoscenza e sulla tendenza della nostra epoca a credere che ogni cosa possa essere ricostruita, classificata, recuperata.

Come spesso accade nei romanzi di McEwan, il narratore è al tempo stesso affascinante e inaffidabile: Tom alterna lucidità e autoinganno, nostalgia e ironia, e attraverso le sue parole si intravede un mondo che ha perso molto più della sua geografia. La seconda parte del romanzo, affidata a una voce diversa e sorprendente, amplia lo sguardo: se nella prima metà prevale l’intimismo intellettuale di Tom, nella seconda affiorano le implicazioni morali e politiche del disastro, rivelando cosa significhi davvero “sapere” in un’epoca in cui i fatti sono stati spazzati via insieme alle città.

Uno dei meriti maggiori del libro è la sua capacità di rinnovare la tradizione del romanzo realista pur muovendosi all’interno di un contesto futuristico. McEwan non indulge nella costruzione di un universo fantascientifico minuzioso: piuttosto, usa la distopia come specchio, come amplificazione delle mancanze del presente. L’“isola” su cui vive Tom diventa metafora dell’insularità liberale, di una visione del mondo colta, razionale e benintenzionata, ma incapace di prevenire le catastrofi che pure sapeva annunciate. È qui che il romanzo tocca alcune delle sue corde più profonde: nella consapevolezza che il sapere, da solo, non basta; che la lucidità non impedisce l’errore; che anche i migliori dei nostri sistemi di valori possono trasformarsi in gusci vuoti di fronte a crisi globali.

La trama, che procede con un ritmo sorprendentemente avvincente per un romanzo così concettuale, porta il lettore a interrogarsi continuamente su ciò che è vero e su ciò che è ricostruito, su quanto la memoria possa deformare e su quanto la storia, una volta spezzata, possa o non possa essere rimessa insieme. McEwan orchestra rivelazioni e ambiguità con la consueta maestria, anche se alcune svolte narrative appaiono meno convincenti alla distanza: l’autore gioca con l’assurdo, a tratti con il melodrammatico, e non sempre la costruzione regge l’ambizione filosofica che sostiene il romanzo.

Ciò che resta, tuttavia, è un libro sorprendentemente umano. Nel dialogo tra passato e futuro, tra ciò che è stato e ciò che resta da capire, Quello che possiamo sapere diventa un romanzo sulla responsabilità, sul desiderio di significato, sul bisogno di ancorarsi a qualcosa mentre tutto intorno si disgrega. È anche un ammonimento: non basta sapere, bisogna agire; non basta ricordare, bisogna scegliere cosa fare dei ricordi.

McEwan, qui, è un critico della nostra stessa fiducia nel progresso, un liberale che interroga il liberalismo. E il risultato, pur con i suoi squilibri, è un’opera stimolante, inquieta, profondamente consapevole del nostro presente. Un libro che chiede al lettore non soltanto di immaginare il futuro, ma di riconoscere le crepe del proprio tempo.

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