l'intervista
Alle radici del male meridionale
Dalle vicende agrodolci dei Borbone, alle scelte sottili di Cavour, alla sortita di Garibaldi fino alla ferocia della legge Pica e all’amaro destino del Sud
Nell’Italia in cui non si riesce più a ragionare di nulla, un libro senza bandiere è un pozza d’acqua fresca nel deserto. Un mezzo miracolo. «Quando scrivi un volume di storia nessuno deve capire per chi voti», lo ammoniva Alessandro Galante Garrone. E in effetti Gianni Oliva, saggista e storico torinese, che di Garrone è stato allievo, non vota per nessuno. Né per l’apologia del Risorgimento sabaudo, né per il nostalgismo borbonico. La prima guerra civile. Rivolte e repressione nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia è un volume di profondo equilibrio, che non conosce sbandate o trincee, se non quelle della storia, ma sa applaudire e bastonare senza sfregiare la verità. Dalle vicende agrodolci dei Borbone, alle scelte sottili di Cavour, alla sortita di Garibaldi fino alla ferocia della legge Pica e all’amaro destino del Sud, il lettore è condotto per mano alle radici della nostra storia. E dei nostri guai.
Professor Oliva, perché parla di guerra civile e non di semplice «lotta al brigantaggio»?
«L’idea di “lotta al brigantaggio” appartiene alla storiografia dell’Italia liberale che aveva bisogno di giustificare le repressioni. L’esercito fu mandato a reprimere sollevazioni popolari sulle quali si innestarono le azioni dei briganti. L’idea di base dei ribelli era che il nuovo Stato avesse aggravato i problemi atavici di quel pezzo d’Italia».
Entriamo nella testa, anzi nelle teste, di quel popolo in rivolta e dei suoi oppositori. I contadini da che parte stavano?
«I contadini di tutto il mondo si sono sempre schierati con chi ha promesso loro la terra. Da analfabeti, erano meno interessati alle libertà di stampa e di parola»
Quindi la classe che sosteneva l’Unità qual era?
«La borghesia e per una semplice ragione: se tu producevi a Torino e volevi andare a vendere a Napoli dovevi attraversare sei Stati. Quindi sei frontiere da passare, sei dazi da pagare, sei monete da commutare, sei unità di misura da utilizzare. In quelle condizioni non poteva crescere un’economia industriale»
Si potrebbe pensare che l’odio dei contadini tendesse a riversarsi però sul nemico storico, cioè il latifondista.
«Guardi, i grandi feudatari erano una realtà conosciuta, tradizionale, da sempre compresa nel tessuto di quelle terre. I nuovi ricchi, invece, emergenti in uno Stato che reprimeva senza dare nulla, facevano più rabbia».
E qui si inseriscono i briganti. Nomi «leggendari» come i lucani Carmine Crocco e Antonio Franco, i pugliesi Giuseppe Schiavone e Cosimo Mazzeo, senza dimenticare le donne come Maria Oliverio. Cosa volevano?
«I briganti erano briganti, nel senso che non avevano alcun progetto di riforma sociale né strategie politiche di lungo periodo. Però esercitavano un certo fascino sulla popolazione che li sosteneva contro uno Stato che aumentava le tasse e imponeva la leva obbligatoria, togliendo dalle campagne i ragazzi nell’età più utile al lavoro».
Il problema, però, è la nuova classe dirigente italiana non ha mai voluto capire il Meridione. Citazione attribuita a D’Azeglio: «Si è fatta l’Italia senza conoscerla e senza studiarla».
«Dopo l’Unità fu spedita una commissione nel Mezzogiorno, la Commissione Massari, che all’inizio del 1863 rimase due mesi nelle terre del Sud per capire la situazione».
E cosa capirono?
«Che il Meridione avrebbe avuto bisogno di infrastrutture, di riforme, di un miglioramento generale delle condizioni di vita. Ma che d’altra parte non c’era tempo: bisognava mantenere l’ordine e mantenerlo con l’esercito».
Nella cornice della famigerata legge Pica iniziò così la repressione al Sud. Ma di che numeri parliamo?
«Di 100mila militari schierati e di un conflitto che fece più morti delle tre guerre d’indipendenza. Ventimila in cinque anni (1860-1865) nei quali tutto peggiorò».
Quale fu il grande errore?
«Lo Stato unitario fece un’operazione fatale: l’alleanza con la parte peggiore della classe dirigente meridionale. Lo racconta De Roberto ne I Viceré attraverso la famiglia degli Uzeda. Anti-unitati, anti-sabaudi, anti-garibaldini, anti-tutto, ma a Unità fatta, prendono il loro rampollo e lo spediscono a Montecitorio con l’obiettivo di intercettare per sé i finanziamenti destinati al territorio».
La morale qual è?
«Che la classe dirigente del Sud non è mai stata la parte migliore del Sud. E l’origine di questo male atavico è proprio in quegli accordi fatti all’epoca».
Nemmeno Cavour comprese cosa fare?
«Cavour è morto tre mesi dopo l’Unità d’Italia. Non aveva mai voluto conquistare il Sud, pensava a un Paese costituito dal Nord e dal Centro che si sarebbe progressivamente allargato al Mezzogiorno e allo Stato Pontificio. L’inaspettato successo della sortita di Garibaldi sconvolse i piani».
Chiaro, ma a quel punto?
«Il Conte non era mai andato oltre Pisa. Ma una delle sue ultime intuizioni fu l’idea di affidare a Marco Minghetti lo studio dell’organizzazione federale degli Usa. Cavour non era un federalista: era monarchico e i federalisti, come Cattaneo, erano repubblicani. Ma capì che non si poteva governare l’Italia del Sud con le stesse regole dell’Italia del Nord. Purtroppo, in quegli anni, si fece esattamente il contrario».
Ma alla fine, professore, il Risorgimento fu un processo di liberazione o no?
«Fu un processo irreversibile dal punto di vista delle esigenze economiche ma sarebbe stato necessario farlo in modo diverso anche perché noi, ancora oggi, scontiamo alcuni errori di quel periodo».