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Interrogarsi sul tempo: «L’orologio rotto»

Lara Laviola

Tutti sono in attesa di un futuro che non arriva mai, come se la storia fosse rimasta incastrata tra un prima e un dopo. L’orologio rotto diventa così la metafora del tempo storico dell’Italia repubblicana

A un certo punto di Cent’anni di solitudine Gabriel García Márquez racconta che dopo la guerra affrontata da Aureliano Buendìa era arrivata «la Guerra triste dell’umiliazione quotidiana, delle suppliche e dei memoriali, dei ritorni domani, del ci siamo quasi, dello stiamo studiando il suo caso con la debita attenzione; la guerra persa senza rimedio contro i gentilissimi e umilissimi servitor suo che avrebbero dovuto assegnare e non assegnarono mai le pensioni. L’altra guerra, quella sanguinosa durata vent’anni, non aveva inferto loro tanti danni come la guerra corrosiva dell’eterno rinvio». Racconta insomma che il peggiore logoramento di un popolo non è tanto nello scontro bellico, violento e diretto quanto nel successivo regime dell’attesa, della corruzione e delle speranze rivoluzionarie tradite.

Quando Carlo Levi pubblica L’orologio nel 1950, l’Italia sta cercando di rialzarsi sulle macerie morali e materiali della guerra. È un Paese giovane e già stanco, sospeso tra l’euforia della Liberazione e la delusione del dopoguerra. L’orologio è il romanzo di questo sospeso: un libro che racconta l’impossibilità di misurare il tempo della rinascita, perché il tempo stesso – che nel suo trascorrere in avanti ci illude che debba portare con sé un inevitabile progresso -  come l’orologio del titolo sembra aver smesso di funzionare.

L’oggetto che dà il nome al romanzo è infatti un orologio che non segna più l’ora, simbolo di un tempo interiore e collettivo che non coincide con quello della storia ufficiale. Levi ne fa il centro di una riflessione ampia, politica e poetica insieme, sul destino dell’Italia. Dopo Cristo si è fermato a Eboli, libro della scoperta del Sud e della distanza tra lo Stato e i “contadini del mondo”, L’orologio rappresenta il ritorno al Nord, alla città, alla politica e ai suoi linguaggi consumati.

Il protagonista attraversa Roma come in un sogno febbrile. «La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni». Un incipit memorabile e poderoso che mal si attaglia al quotidiano muoversi del personaggio tra redazioni di giornali, salotti e uffici ministeriali, incontrando uomini che parlano di libertà, giustizia, progresso, ma che sembrano aver perso il contatto con la realtà. Tutti sono in attesa di un futuro che non arriva mai, come se la storia fosse rimasta incastrata tra un prima e un dopo. L’orologio rotto diventa così la metafora del tempo storico dell’Italia repubblicana: un tempo che non scorre, ma ristagna.

Levi osserva con occhio di pittore e un registro poetico e materico allo stesso tempo: le sue descrizioni di Roma, dei volti, dei gesti, hanno la densità di un quadro. Ma dietro quella bellezza visiva si cela una malinconia profonda, la consapevolezza che l’Italia non ha ancora trovato un ritmo comune, una misura condivisa. La nuova democrazia si costruisce sulle rovine del fascismo, ma non riesce a liberarsi del tutto dalle sue ombre.

L’orologio è anche un romanzo politico nel senso più alto: non parla di partiti o schieramenti, ma del rapporto fra individuo e storia, fra tempo privato e tempo collettivo. Levi capisce che la vera crisi del dopoguerra non è economica né istituzionale, ma spirituale: gli italiani non sanno più credere nel futuro. 

Eppure nel pessimismo di Levi non c’è disperazione. Il suo sguardo resta umano, compassionevole, persino affettuoso verso quella folla di uomini smarriti che popolano la Roma del dopoguerra. Il tempo si è inceppato ma la vita continua a scorrere nelle pieghe minime, nei gesti quotidiani, negli incontri casuali. È in queste crepe che Levi intravede ancora una speranza: la possibilità di una rinascita che parta non dai palazzi del potere, ma dalle persone comuni, dagli ultimi, come già accadeva in Cristo si è fermato a Eboli.

Rileggere L’orologio oggi significa confrontarsi con un’Italia che, a distanza di settant’anni, sembra ancora interrogarsi sul proprio tempo. Anche il nostro orologio, in fondo, sembra rotto: la politica procede per inerzia, il linguaggio pubblico si è logorato, il futuro appare sempre differito. In questo senso Levi resta un autore contemporaneo, capace di raccontare non solo il suo dopoguerra ma la nostra perenne transizione.

Il tempo della storia non è lineare, e non basta far ripartire le lancette per sentirsi moderni. Bisogna, piuttosto, imparare ad ascoltare il silenzio, la pausa in cui tutto sembra immobile ma in cui, in realtà, si prepara il cambiamento. Le notti della Storia in cui ruggiscono i leoni.

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