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Metropolis, il flusso disumano della moltitudine
Lang aveva verticalizzato gli strati sociali e urbani dal cielo al sottosuolo e perciò condensato stili e scuole, tendenze e prospettive, Gropius, l’Espressionismo e la Nuova oggettività, il Bauhaus
Ci sono film che hanno fatto la storia non per modo di dire, ma avendo davvero cercato di leggerla, ammonirla, prevenirla nei limiti consentiti di una configurazione anche urbanistica. È accaduto al più ambizioso capolavoro di Fritz Lang, Metropolis, che ha visualizzato e reso seminale per l’intera storia del cinema e l’immaginario collettivo la possibilità stessa, demiurgica dello spettacolo cinematografico di massa di abbracciare il pubblico come massa incontrollata a sua volta. Lang, lavorando per quasi un anno sul testo di Thea Von Harbou e le materiche creazioni potenti di Otto Hunte, Erich Kettelhut e Karl Vollbrecht, sapeva nella cornice critica dell’esperienza politica di Weimar che il cinematografo poteva, allora, irreggimentare l’indistinto flusso disumano della moltitudine. E concentrando nelle sue mani autoriali questo potere/possibilità come atto filmico assoluto provvedeva senza remore marxiste né fascinazione autoritarie ad accusare all’unisono la borghesia inoperosa e il proletariato operaio sindacalizzato, ugualmente stretti nelle inquadrature come nel perimetro ambizioso della città avveniristica del titolo. L’incapacità di ragionare singolarmente e per il bene collettivo sostenibile coincideva in Metropolis esattamente con la deriva dello sguardo convergente sul grande schermo, maschile per abominio compulsivo puntato sulla donna-macchina, apocalittica e malvagia in quanto doppia di quella autentica: questa creatura eterodiretta da una scienza e da una tecnologia perversa e patologica riesce perciò a stregare la società come i grattacieli e i diktat volumetrici, slanciati o sprofondati.
Nella stretta architettonica il dato scenografico diventava così sintomo di un progetto concepito e controllato dall’alto, strutturato, suggestivo e inquietante a un tempo. La progettualità dello spazio riservato e ristretto della città del futuro, per molti versi modellata sulla utopia verticale di New York, si prestava filmicamente a diventare l’emblema di una costruzione complessa, articolata e impressionante che però conteneva al suo interno, nelle viscere di cemento e dello spirito, i germi dell’autodistruzione e del genocidio, con i bambini e gli adolescenti predestinati a essere inghiottiti come gli operai adulti, mediante implosione delle infrastrutture o il trionfo del dispositivo trasfigurato in Moloch. A Metropolis spetta dunque il primato della cementificazione come forma maniacale della grandezza: da questa gigantografia audiovisiva derivano infatti di necessità socio-politica tutti gli altri classici, da Blade Runner (1982) di Ridley Scott a Megalopolis (2024) di Francis Ford Coppola, rappresentando di conseguenza e in contesti non meno deliranti e incontrollati la megalomania post-umana, ergo urbanistica, invivibile e compressa delle “megalopoli” contemporanee, nemmeno più prossime venture.
Lang aveva verticalizzato gli strati sociali e urbani dal cielo al sottosuolo e perciò condensato stili e scuole, tendenze e prospettive, Gropius, l’Espressionismo e la Nuova oggettività, il Bauhaus, Gropius e Bruegel, utopia buona e cattiva, tecnica e spirito; o per dirla con l’auspicio principale, la la mente dell’industriale capitalista e il braccio della manodopera con il cuore innamorato del Figliol Prodigo, inteso come mediatore, forse per scongiurare i sintomi dell’imminente, strisciante nazismo. Per questo l’unica opera cinematografica che può competere per rigore intellettuale, impegno civile e politico-indiziario con la sfida titanica di Lang è il manifesto di un’idea di cinema ha sposato oltre un quarto di secolo dopo le ragioni dell’urbanistica per delineare un quadro preoccupante, accusatorio e non meno preveggente del disastro italiano che ha accompagnato il cosiddetto Miracolo. E cioè Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi in cui la gestione abusiva di una giunta napoletana di destra che prelude al centro-destra nazionale si traduce nello scempio edilizio che porta il piano regolatore, all’ombra del leopardiano e geologico “Sterminator Vesevo”, nel territorio impervio degli speculatori e dei palazzinari. Per questo il paradigma rosiano ha continuato a far scuola per molto cinema successivo che comunque nella maggior parte dei casi non è stato all’altezza. Tanto che l’autore, anche sulla scorta del complementare Diario napoletano (1992), indagando e ragionando inoltre di decumani, piani di decentramento urbanistico e ridistribuzione organica della popolazione, quasi nella realtà a scongiurare gli incubi neanche tanto fantascientifici ma concreti di Lang, nel 2005 ha ricevuto una Laurea Honoris Causa non in Cinema o discipline affini ma in Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Ambientale dall’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.