chiave di sol
In principio fu Gaber. Lo spazio urbano e il sogno collettivo
Com’è bella la città, cantava nel 1969. «Piena di strade e di negozi, e di vetrine piene di luce. Con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce»
Se la musica ha spesso cantato la città, evocandola nei suoi ritmi frenetici, nelle geometrie urbane e nei suoi sogni collettivi, il cantautorato italiano - dagli anni Sessanta in poi - l’ha disegnata con tratti più intimi e contraddittori. La città non è solo un luogo, ma un’idea, una tensione, una scena del vivere sociale dove si agitano nevrosi, utopie, solitudini e rivolte interiori.
A partire da Giorgio Gaber, che nel 1969 cantava in Com’è bella la città una finta meraviglia che graffiava sotto la pelle. «Piena di strade e di negozi, e di vetrine piene di luce. Con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce». Più che un inno urbano, era una canzone-trappola: il suo ritornello incalzante si prendeva gioco della retorica del progresso e smascherava la nevrosi collettiva del vivere urbano. La città, per Gaber, non era il luogo delle meraviglie, ma il teatro della frenesia produttiva e del conformismo, dove le luci e le strade diventavano solo un altro modo per perdersi.
Non è l’unico ad aver dato voce - e volto - alla città nella canzone d’autore italiana. Sarebbe impossibile racchiudere tutte le città cantate, sognate, denunciate o perdute in un solo articolo. Ma è proprio questa la forza del tema: la città è insieme metafora e realtà, spazio concreto e proiezione interiore. A volte diventa rifugio, altre volte gabbia. La città, insomma, non è mai solo un luogo fisico. È una protagonista muta e parlante, una scenografia che plasma i personaggi e ne riflette l’anima. È rumore, cemento, ma anche poesia, incontro, abbandono.
Nel 1965, Fabrizio De André pubblica La città vecchia: Genova, con i suoi vicoli, le prostitute, i poveri, non è solo sfondo ma protagonista, in uno sguardo pietoso e universale sull’umanità ai margini. Pochi anni dopo, nel 1967, torna nella stessa Genova con Via del Campo, altro ritratto di città ferita e solidale: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior», è il celebre verso che rovescia ogni logica borghese.
Nel 1972, Francesco Guccini firma uno dei suoi brani più emblematici, Piccola città. Non si tratta di una metropoli vera e propria, ma di una cittadina di provincia che assume contorni universali: «Piccola città / bastardo posto / appena nato / già ero desto», scrive con disincanto. La città è una prigione dolceamara, dove si cresce imparando presto il peso delle aspettative.
Sempre nel 1972, Lucio Dalla pubblica Piazza Grande. Ispirato a un senzatetto bolognese, il brano trasforma la piazza urbana in spazio di vita e appartenenza. «A modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io», canta il protagonista, trovando nella città non solo asfalto ma anche la possibilità di esistere.
Ma la città nella canzone italiana non è soltanto riflessione esistenziale o denuncia sociale. A volte è appartenenza viscerale, slancio identitario, malinconia e desiderio, testimonianza e complicità. Nel 1969 l’Equipe 84 canta Tutta la mia città, brano simbolo della beat generation italiana, dove la città diventa teatro di abbandono e memoria: un sentimento generazionale, quasi epico, che lega urbanità e solitudine. Nel 1977 Adriano Celentano incide Il ragazzo della via Gluck», storia autobiografica e metafora urbana tra infanzia, cemento e speculazione edilizia. «Là dove c’era l’erba ora c’è una città», è il celebre verso che fotografa l’avanzata del progresso e la perdita dell’innocenza. Il brano è uno dei primi esempi di ecologia urbana cantata con tono popolare e struggente.
Alex Britti, in Milano (2000), restituisce una visione notturna e poetica della metropoli lombarda: è malinconia e fascino, alienazione e promessa. Una skyline interiore che si riflette nei neon e nelle finestre accese. E se Roma è stata spesso raccontata, nessuno l’ha cantata con la forza di Antonello Venditti. In Roma capoccia, il suo inno d’amore alla capitale, emerge una città solare e struggente, viscerale e decadente. Una Roma che è madre, teatro e malinconia.
Giuni Russo, in Alghero (1986), omaggia invece il Sud con leggerezza e ritmo, evocando l’estate e i colori di una città costiera: una canzone che fonde suoni esotici e geografia sentimentale, dove il paesaggio urbano si tinge di libertà. E poi c’è il canto eterno di una città che è più mito che luogo: Napoli. Napul’è di Pino Daniele (1977) è forse il manifesto più alto della napoletanità moderna. «Napule è na’ carta sporca / e nisciuno se ne importa», canta Pino, in un alternarsi di amarezza e bellezza che è la cifra stessa della città.
GUIDA ALL’ASCOLTO (DI NICOLA MORISCO)
“FIGURE IN BLUE” di CHARLES LLOYD
La leggenda del jazz Charles Lloyd torna ad incidere in studio: ecco “Figure in blue”, un doppio album in cui il grande sassofonista-flautista è in compagnia di un nuovo trio con Jason Moran (pianoforte) e il Marvin Sewell (chitarra) Il suo dodicesimo album Blue Note viaggia su vasti terreni musicali (da ballad seducenti al ruvido blues del Delta) e include omaggi a Duke Ellington, Billie Holiday, e allo scomparso amico e Zakir Hussain. Il grande guru aveva convocato questo trio per festeggiare il suo 87° compleanno con un concerto all’ormai abituale Lobero Theater di Santa Barbara: il risultato lo convinse a convocarli in studio. Era scontata l’intesa con Moran, grazie ad una collaborazione ormai ventennale: ma il trio poteva contare su di un’empatia totale, grazie alle comuni radici nel Sud, svelate e sottolineate dallo stile chitarristico – all’occorrenza capace di espliciti riferimenti al Delta blues – di un sorprendente Sewell.
“LIMINAL” di BEATIE WOLFE e BRIAN ENO
“Liminal” è il terzo album nato dalla collaborazione tra Beatie Wolfe e Brian Eno, che completa il progetto iniziato con “Lateral” e “Luminal”, pubblicati il 6 giugno scorso. Descritti come musica spaziale e da sogno, “Lateral” e “Luminal” trovano in “Liminal” un punto d’incontro: musica della materia oscura, una terra ibrida e misteriosa, tra paesaggio sonoro e sogno. I due artisti spiegano che “Liminal” “vive al confine tra canzone e non-canzone (“nong”), esplorando uno spazio intimo e ambiguo”. La loro collaborazione è nata dopo un incontro al SXSW, dove hanno tenuto una conferenza su arte e clima, selezionata tra le migliori del festival negli ultimi 25 anni. Successivamente hanno esposto le loro opere visive in gallerie londinesi, dando vita al progetto musicale. In linea con il loro impegno ambientale, tutti i prodotti sono realizzati con materiali ecologici e biovinile.