le idee

L’eterno scontro tra paesaggi: fare i conti con storia e filosofia

Giacomo Fronzi

«Less aesthetics, more ethics», utilizzando la formula scelta da Massimiliano Fuksas per titolare la settima Mostra Internazionale di Architettura

Troppo spesso, nell’affrontare i temi legati alla città o ai rapporti tra natura e architettura, tra paesaggio naturale e paesaggio urbano, ci si concentra esclusivamente sulla dimensione tecnica, trascurando il profilo storico e filosofico (in una cornice che vede estetica ed etica l’una a fianco all’altra) che essi possono richiamare.

Le città occidentali sono cambiate molto nel corso del tempo. In particolare, sono venuti meno i limiti, i confini che la città tradizionale aveva e che la città contemporanea tende a non avere più. Fino alla metà del sec XIX la città è stata separata rispetto al contesto e la delimitazione che la caratterizzava, simbolicamente e fisicamente coincidente con le mura cittadine, incrementava lo spirito identitario e comunitario. Tanto le mura quanto le porte di accesso alla città favorivano lo sviluppo di un senso di appartenenza che, ciononostante, si rendeva comunque disponibile alle contaminazioni con l’ambiente esterno, seppure in misura ristretta. Nella seconda metà del XIX sec. la città inizia a espandersi, a dilatarsi oltre ogni misura, determinando la perdita dell’identificazione, favorendo, per contro, il disorientamento del cittadino nello spazio urbano, uno spazio urbano nel quale non ci sono più gerarchie architettoniche, non ci sono identità né punti di riferimento.

Dinanzi a questo scenario, potremmo affermare “Less aesthetics, more ethics!”, utilizzando la formula scelta da Massimiliano Fuksas per titolare la settima Mostra Internazionale di Architettura (Biennale Architettura, Venezia 2000) da lui diretta. Ma, all’occorrenza, potrebbe funzionare anche il suo contrario: “Less ethics, more aesthetics”. Il punto è che i livelli etico, socioantropologico ed estetico dovrebbero sempre essere centrali nell’orizzonte di un’architettura urbana che, primariamente, dovrebbe pensarsi come architettura relazionale, proponendo modelli che stimolino gli scambi, gli incontri e modalità esperienziali comunitarie, abbandonando un cinico «atteggiamento passivo o complice, rispetto alla distruzione della vita e all’enorme sviluppo delle megalopoli» (Fuksas, Biennale di Venezia. Attraverso due millenni).. L’opera d’arte relazionale, ben definita e descritta da Nicolas Bourriaud, si proponeva come “interstizio” sociale dotato di senso e autonomo rispetto al sistema generale all’interno del quale si colloca, ma essa poteva realizzare il proprio obiettivo “etico” soltanto all’interno di confini temporali fortemente limitati. L’architettura etica e relazionale, invece, ha la possibilità di creare “interstizi” urbani dai confini temporali ben più ampi, luoghi realmente abitabili, spazi pubblici relazionali e comunitari che possano vincere la “solitudine del cittadino globale”, in definitiva dando vita a «una città meno discriminante e più bella» (M. Romano, Costruire le città).

È alla relazione, intesa come orizzonte teorico e obiettivo pratico, che è doveroso richiamarsi, allo scopo di interrompere e riconvertire dinamiche nelle quali tagli, separazioni, chiusure, assenza di forma vengano spacciate per elogio delle differenze, e, per converso, l’omologazione e la mancanza di gerarchie e differenziazioni degli spazi e dei moduli vengano spacciate per esempi di democrazia sociale e urbana. Tanto i confini quanto le aperture non possono e non devono venire meno, dal momento che non si dà apertura se non dei confini e non si danno confini se non in uno spazio inutilmente illimitato. I territori andrebbero rivisti e rivissuti nella loro mobilità, «elastici, deformabili, capaci di accogliersi l’un l’altro, di penetrare gli uni negli altri, spugnosi, molluscolari. Non si tratta di un’operazione di soppressione del confine: qualsiasi corpo presenta confini, pena l’annullarsi. Né si tratta di confondere anarchicamente le relazioni fra i diversi tempi dei diversi luoghi. Si tratta piuttosto di accordare senza confondere, facendo vivere l’intero nella qualità di ogni parte» (M. Cacciari, Nomadi in prigione).

Ecco perché per l’estetica, tanto nella veste di teoria della sensibilità quanto in quella di riflessione sull’arte e l’architettura, non può esimersi dal trattare le questioni connesse all’abitare, inteso come elemento fondamentale e discriminante per il miglioramento delle modalità di convivenza tra gli esseri umani.

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