Icaro
Suso Cecchi d’Amico: Il bozzolo e la farfalla
Ci sono molti modi di leggere o rileggere i testi cinematografici di Suso Cecchi D’Amico: due, forse tre o comunque quelli che si rendono necessari a partire da considerazioni fondamentali. Il primo riguarda il ruolo anfibio dello sceneggiatore, da un lato, restituito una tantum di questi tempi in cui si è persa la storica alla sua consistenza di autore di testi da pubblicare in volume. E nel caso di Suso Cecchi D’Amico, La fortuna di essere donna e altre storie per il cinema (Einaudi,2025, 794 pagine, 90 euro), di un volume impegnativo si tratta, addirittura nella collana più prestigiosa dell’editore torinese, i Millenni, come già il nome stesso suggerisce. Il secondo c’entra con il titolo della vasta produzione di Suso Cecchi D’Amico scelto per fare da capofila all’antologia, “La fortuna di essere donna”, che rimanda non solo a quel particolare soggetto (pp. 249-270) firmato con Alessandro Continenza ed Ennio Flaiano per l’omonimo film di Alessandro Blasetti del 1956. Il che sta a ricordare la relativa “fortuna” di una figura femminile all’epoca, in un contesto a prevalenza e dominanza maschile, nella fase della scrittura preventiva e non definitiva dell’opera cinematografica propriamente detta. Suso Cecchi D’Amico quella “fortuna”, che soltanto tale non dovuta essere, bensì un diritto intellettuale e creativo alla pari, ebbene l’ha avuta, indipendentemente da quello d’autore; ed è importante che queste opere così raccolte la cosiddetta, meritata “fortuna” la testimonino in blocco. C’è poi un terzo motivo su cui insiste nell’introduzione “Il bozzolo e la farfalla” Francesco Piccolo, sceneggiatore e autore letterario a un tempo, il quale cura l’opera monumentale e perciò millenaria con Caterina D’Amico: ed è il bisogno di sottolineare come “chi scrive una sceneggiatura deve pensare che sia la cosa più intoccabile del mondo, ma appena ha finito di scrivere essa si deve trasformare nella cosa più toccabile del mondo. Ecco: quello che speriamo suggerisca quest’antologia di una grande scrittrice del Novecento è che lo stesso metodo bisognerebbe averlo per scrivere un saggio o un romanzo” (p. XXIII). Il rischio è però di saldare il concetto generale di “grande scrittrice del Novecento” a quello particolare o contingente di vedersi poi “trasformare” il testo, che così diventa la “cosa più toccabile del mondo”. Sarebbe opportuno riflettere sul ruolo della scrittura e della lingua, e dello stile che contraddistingue la combinazione quando il risultato finale è letterario, senza confondere il letterario a monte con l’audiovisivo. Forse chi scrive al giorno d’oggi lo fa immaginando da subito uno sbocco cinematografico e audiovisivo, per ottenere una visibilità e un consenso nonostante il patto con il diavolo che postula la “trasformazione” inevitabile; o proprio grazie a questo patteggiamento che preventivamente impone di scrivere come si parla e di pensare anche letterariamente nei modi in cui si è costretti o si sceglie di scrivere per ragioni vantaggiose altre e indiscutibili. Ma la letteratura c’era e si distingueva ai tempi di Suso Cecchi D’Amico in cui gli scrittori appunto scrivevano, e diversamente anche le sceneggiature: con una qualità superiore all’attuale lista dei dialoghi unita a descrizioni basiche di ambienti e azioni (con la complicità non disinteressata dei programmi informatici di scrittura). E scrivevano anche romanzi o racconti non come sceneggiature, trattamenti o soggetti. Erano le stesse persone, ma i testi rispondevano delle differenti occorrenze in termini di forma del contenuto e contenuto della forma. Dunque la letteratura era e sarebbe ancora bello che fosse oggi un’altra cosa. Rischia invece di non esserlo più, se si confonde quella incomparabile di una sceneggiatrice semplicemente eccezionale anche per ragioni di gender allora molto complesse con l’opera non meglio specificata di una “grande scrittrice del Novecento”, che sarebbe stato più corretto affermarlo in presenza di opere sue direttamente letterarie. Se la letteratura non è più “un’altra cosa” è perché ha intanto preso il sopravvento il grado zero di scrittura, colloquiale, da lista della spesa, frasi incompiute e paratassi come struttura portante per prodotti diversamente finiti e successivi. Un conto è parlare tecnicamente di “scrittura”; e allora è nell’insieme giusto tener dentro tutto. Ma quando si profila il rischio con questo equivoco involontario di giustificare anche la letteratura esistente, quella del nostro tempo presente, assoggetta ai soggetti, alle sceneggiature e ai trattamenti, converrebbe tirar fuori il caso eccellente di Suso Cecchi D’Amico dalla mischia.