arte

Tra sogno e allucinazione, l’Enigma di Dalì

Rossella Cea

Un'opera eseguita a Figueras nell’autunno del 1929 nel laboratorio di sartoria della zia, che all’epoca il giovane artista utilizzava come atelier. Una delle pochissime opere in cui si riferisce alla madre...

«Mia madre, mia madre, mia madre…». L’Enigma del desiderio va considerata un’opera fondamentale del percorso artistico di Salvador Dalì, che esplora il tema del desiderio analizzando il subconscio. Quest’olio su tela, che oggi si trova alla Pinacoteca di Arte Moderna di Monaco, rappresenta pienamente il culmine della sua concezione di surrealismo pittorico, che si esprime attraverso il sogno. Quello di una pittura in cui, dopo le recenti scoperte di Freud sull’inconscio (emblematica la sua Interpretazione dei sogni scritta nel 1899), i contenuti onirici grazie a una tecnica raffinata e complessa, memore della lezione dei pittori fiamminghi, diventano elemento essenziale di rappresentazione e riflessione. L’Enigma del Desiderio di Dalì venne eseguito a Figueras nell’autunno del 1929 nel laboratorio di sartoria della zia, che all’epoca il giovane artista utilizzava come atelier. Una delle pochissime opere in cui Dalì si riferisce alla madre, che fu acquistata dal Visconte di Noailles.

Lo spazio figurativo è ricco di quei primi inquietanti simboli ed elementi che caratterizzeranno la produzione del Dalì maturo. Fedele al verbo di Freud, che conobbe personalmente e da cui fu fortemente influenzato, l’artista tenta di rappresentare ciò che è il desiderio attraverso un’atmosfera straniante di sospensione metafisica che domina tutta l’opera, caratteristica che avrà un peso rilevante decisivo nell’immaginario estetico novecentesco. Gli enigmi del desiderio si trovano in mezzo al deserto in cui emerge, da un silenzio sconosciuto che sembra assordare, una strana roccia gialla, dura e molle allo stesso tempo, a forma di ala. In basso a destra un volto umano, dalla grande palpebra chiusa. Simbolo di distruzione e decadenza. In alto a destra una testa leonina con un sorriso tra l’ebete e il trionfante. La formazione rocciosa appare come bucherellata e dentro questi incavi arrotondati è possibile leggere la scritta ma mére, ossessivamente ripetuta. A sinistra si scorge una coppia di figure: la più piccola abbraccia l’altra col capo grigiastro. Quest’ultima brandisce un coltello pronto, forse, a colpire la piccola figura che lo sta cingendo. Percorrendo visivamente lo spazio pittorico in profondità emerge un ulteriore enigmatico elemento. Un corpo femminile che si lascia intravedere da una roccia.

Potremmo definire l’opera come una sorta di input che fa riferimento alle ossessioni del bambino nel suo rapporto col padre (simboleggiato dal leone). Le due figure abbracciate in lontananza sono padre e figlio e il coltello che brandisce il primo non è altro che un riferimento alla paura della “castrazione” in senso freudiano. Le figure femminili vanno intese come possibili liberazioni dalle ossessioni infantili e come luoghi in cui conquistare una piena e rassicurante virilità. Un riferimento forse a Gala, la futura compagna dell’artista, conosciuta proprio quell’estate. Un incontro destinato a segnare l’inizio di un amore che sarebbe durato un’intera vita.

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