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La rivolta dei Fasci siciliani e il sangue che parlava al futuro

Leonardo Petrocelli

Un’epopea dimenticata, quella dei «fascianti», fregiata dall’antico archetipo: «Se divisi siam canaglia, / stretti in Fascio siam potenti»

Le processioni, i fuochi di paglia, le torce accese. Le carmagnole - cioè le giacche corte - nere e i distintivi rossi. E ancora quelle facce «sporcate» dai baffi, introdotte dalle fanfare degli ex soldati trombettieri. È il popolo in rivolta «chi petri nte sacchetti / e la fami nte panzi vacanti».

Faceva effetto, all’epoca, vederli sfilare e battersi per ottenere «ciò che nessuno credeva non ci fosse». Salari più alti, tasse più basse. Erano i Fasci siciliani, movimento spontaneista sorto all’alba dell’ultima decade dell’Ottocento e tramontato, negli ultimi sgoccioli del secolo, dopo la dura repressione militare del governo di Francesco Crispi, siciliano anche lui, che mise l’isola sotto assedio e li annientò, tra accuse di sovversione e sospetti di triangolazioni con potenze straniere, Francia e Russia in testa (sarà stato Putin?). Un’epopea dimenticata, quella dei «fascianti», fregiata dall’antico archetipo: «Se divisi siam canaglia, / stretti in Fascio siam potenti». 

 A far riemergere la vicenda dalla notte della Storia, almeno qui nel «continente», è il volume Chistu nun è nu romanzu (Sellerio) di Lanfranco Caminiti. Non è un libro semplice. Attacca, senza complimenti, con i documenti dell’epoca: statuti, verbali, resoconti congressuali. Tabelle, lunghi elenchi. E un meraviglioso reportage, firmato da Adolfo Rossi e uscito a puntate su «La Tribuna» nel 1893. Un capolavoro che meriterebbe di essere studiato nelle scuole di giornalismo. Scopriamo così la sorte tragica dei carusi, bambini di otto anni comprati per 100 lire di farina e tenuti in condizione di schiavitù fino alla restituzione della somma, cioè mai. La loro tragedia si mescola alla aspra fatica dei braccianti, dei mezzadri, degli operai nelle zolfare, all’arrancare dei piccoli proprietari. Alla rabbia e al protagonismo delle donne, come le mille arbëreshë iscritte al Fascio di Piana dei Greci (oggi degli Albanesi). In questa «catasta di legna secca» - non bagnata da alcuna delle gocce di acqua fresca risorgimentale che invece irrorarono il Settentrione - inizia ad ardere l’incendio dei Fasci, esplosi per merito dell’intraprendenza di un deputato, Giuseppe De Felice Giuffrida, la cui battaglia terminerà con una condanna ad oltre tre lustri.

In questo mondo sconosciuto campeggiano i crocifissi («anche Gesù era socialista»), le immagini sacre come avamposti in processione, i ritratti di re e regina che non si toccano, nemmeno durante gli assalti ai Municipi. La cancel culture non serve, grazie.

Alla fine, Caminiti rimette tutto in ordine nell’ultimo capitolo giocando di sponda con Pirandello e il suo «amarissimo e popoloso» I vecchi e i giovani e tutta la letteratura siciliana, da Verga a Capuana, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa. Si capiscono due cose. La prima è che i Fasci furono lasciati soli. Da tutti, pure dai socialisti che, incipriati di pedagogia urbana, storcevano il naso dall’alto di qualche divano. E la seconda, più seria, la spaventosa attualità di questo movimento antico e senza partiti, sorto - in aperta rivolta contro lo Stato - dalle bugie del racconto risorgimentale e dalla crisi della democrazia rappresentativa. Nata già malata e invecchiata pure peggio. No, non è un romanzo. Ma solo un passato che, fin troppo bene, parla al futuro. 

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