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Esuli scrittori, esuli distanze: una geografia sentimentale

Tutti abbiamo un posto nel Museo degli sforzi inutili. Ma un posto d’onore lo hanno i viaggiatori

Se nel filone di studi della geografia della letteratura c’è un’idea basilare secondo la quale il territorio in cui nasce l’invenzione letteraria rappresenta un aspetto decisivo del suo sviluppo, quali sono i luoghi che influenzano gli scrittori esuli?

Per Cristina Peri Rossi possiamo dire che questo elemento è lo spazio tra i luoghi. Distanza che si manifesta nella dimensione del viaggio, come simbolo di dislocazione, esilio esistenziale oltre che politico. Una materia che l’autrice rende con una poetica che riesce a innovare anche il più classico dei tópoi della letteratura. 

Poeta, scrittrice, traduttrice e giornalista, premio Cervantes nel 2021. Nata a Montevideo nel 1941, ha lasciato l’Uruguay nel 1972, nell’anno del crollo della tenuta democratica de Paese e prima del colpo di Stato del 1973 che darà vita a una feroce dittatura militare. Fugge in Spagna, dove nel 1983 pubblica Il Museo degli sforzi inutili (da poco riedito in Italia da SUR). In questa raccolta di racconti Peri Rossi immagina l’esistenza di un museo in cui gli “sforzi inutili” degli uomini vengono catalogati, anno per anno, con oggetti e resoconti. Trenta racconti brevi, a volte brevissimi, dove sullo sfondo di un realismo dell’assurdo si alternano registro ironico e drammatico. Uno stile piano e sintetico trasporta contenuti densissimi e metaforici. 

La materia, complessa e vasta, si origina dalle vicende di chi si ritrova o decide di inseguire qualcosa, - spesso un sogno, una passione - e infine perde gloriosamente. Brevi storie belle, oppure paradossali e ridicole; oppure ancora orrende vicende che ci hanno fatto disperare, come apnee, sospensioni, crepe su un pavimento liscio. 

Un uomo che prova a conquistare una donna. Uno che cerca di dimenticarla. Un atleta che si ferma volutamente a un passo dalla vittoria. Uno che tenta di scrivere un libro. Altri che provano invano a vincere la lotteria. Qualcuno che si sforza di non avere più paura. Uno psicanalista che scopre gli amanti della moglie (e chiama il suo paziente per lamentarsene). 

Improvvise accelerazioni della vita che archiviamo a volte come inutili, perché ci hanno portato via dalla nostra ordinaria amministrazione senza darci l’esito desiderato. Piccoli racconti chiusi in se stessi, come un sogno, dalla trama perfettamente compiuta ma del tutto disconnessa dal prima e dal dopo la veglia.

Tutti abbiamo un posto nel Museo degli sforzi inutili. Ma un posto d’onore lo hanno i viaggiatori.

Come in Album di viaggio, il racconto di un uomo che cerca nei luoghi che visita l’eco di una donna che ama e che non lo ricambia (possiamo dircelo: nessuno viaggia davvero solo per vedere un panorama, un quadro, una chiesa). Il viaggiatore “sa, inoltre, che qualsiasi viaggio nello spazio costituisce anche un viaggio nel tempo, e […] spera di trovare […] l’eco di lei in altri tempi e in altri spazi”. A un certo punto del racconto le invia una cartolina in cui scrive: “[…] talvolta una piccola sicurezza – appena intravista, come la luce argentata di un quadro - può essere così intensa da mettere ordine per un dato periodo di tempo, ad esempio l’età matura, al caos. Ti amo in una di queste insolite illuminazioni”.  Queste parentesi, o per l’appunto, illuminazioni, sono spesso i momenti in cui siamo stati davvero noi stessi. E vedere le cose per ciò che sono è sempre una vertigine: per questo sono solo attimi, durano poco. Prolungare questi tratti di lucidità potrebbe anche essere insopportabile.

Nella geografia del Museo gli aeroporti sono i luoghi (o non luoghi) in cui covano i sogni e le nevrosi dei viaggiatori. Come nel racconto che si chiama proprio Aeroporti in cui Peri Rossi immagina il grande congresso dei viaggiatori che non sono mai riusciti, per una ragione o per l’altra, a partire dall’aeroporto: “[…] alcuni prediligono gli aeroporti perché amano sentirsi sospesi fra una città e l’altra, fra un’ora e l’altra, e adorano la sensazione di non essere ancora partiti definitivamente, ma neppure di essere arrivati. Qualcosa gli dice che si trovano contemporaneamente dentro e fuori, al centro e ai lati. Alcuni, fermandosi, sognano di poter fuggire”. Un viaggio come uno slancio senza approdo, ciclico, inconcludente. Non c’è una meta stabile, non c’è un ritorno salvifico. È un viaggio che è dislocazione: irrequieto, nomade, eternamente sospeso. E più le ragioni addotte dai viaggiatori per non partire, fermi nel limbo delle hall e dei corridoi lucidi, si fanno flebili e paradossali, più finiscono per sembrare autentiche al lettore. Non vale per tutti però: solo per gli esuli, per chi si volta a guardare con malinconia l’aeroporto, per quelli in fuga.

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