L'inserto

Icaro, ma cos'è questa crisi. La lezione di De Masi: ecco come liberare l'uomo

Leonardo Petrocelli

Torna in edicola e sulla nostra digital edition l'inserto culturale della Gazzetta del Mezzogiorno dedicato alle "crisi": dal lavoro, all'arte fino alla musica

BARI - Torna «Icaro», l’inserto culturale della «Gazzetta del Mezzogiorno», questa volta dedicato al grande tema delle crisi, dal lavoro al cinema, dalla filosofia all’arte. All’interno, le ultime riflessioni del sociologo Domenico De Masi (scomparso nel 2023) affidate al libro-intervista con Giulio Gambino, il grande tema del nichilismo contemporaneo e il «dialogo» fra Croce ed Hegel. E ancora le crisi generazionali e i rapporti tormentati, spesso drammatici, tra padre e figlio come ci ricorda la tragica vicenda di Marvin Gaye a 40 anni dalla sua scomparsa.

La lezione di De Masi: come liberare l'uomo

In principio c’era la società rurale. Un periodo lunghissimo, dall’invenzione dell’agricoltura al Settecento, cristallizzato nella solidità delle tradizioni e nella ripetizione dei gesti. Andare da Roma a Parigi al tempo di Giulio Cesare, o negli anni di Napoleone, sarebbe stato più o meno identico. Lo stesso tempo, forse anche lo stesso percorso. Poi, ha fatto irruzione la società industriale, con le fabbriche, la divisione del lavoro e la produzione dei beni materiali. Una rivoluzione totalizzante che ha dettato le regole fino alla Seconda guerra mondiale, altro spartiacque decisivo prima che tutto deflagrasse nella nostra era post-industriale. Un mondo in cui al centro del villaggio (globale) non c’è più la chiesa, né la campagna e nemmeno la fabbrica.

C’è la rete con tutto il suo codazzo di beni immateriali: informazioni, simboli, servizi. Centri di gravità fittizi, confini sfuggenti che nascondono realtà che non si afferrano.

E l’uomo, nel frattempo, s’è perso. Non ha rifugio nel senso (società rurale) né nella soddisfazione dei beni materiali (società industriale). È stanco, smarrito, povero. La crisi delle crisi. Così capita che se a un anziano signore si chiede: «Professore, come si spiega che tanta gente si licenzi?», la risposta sia ironica e lapidaria. Ispirata, non a caso, da una battuta di Luciano De Crescenzo: «Si è sparsa la voce che si campa una volta sola». L’anziano signore è Domenico De Masi, sociologo del lavoro, nato a Rotello, in Molise, nel 1938 e morto a Roma nel 2023. Il grande pubblico lo conosce come l’«ideologo» del Movimento 5 Stelle, sostenitore convinto della piattaforma Rousseau, del reddito di cittadinanza, dello smart working. Ma De Masi è stato molto di più di questo: «Un grande intellettuale e un vero signore». Così lo sunteggia Giulio Gambino, direttore del The Post Internazionale, che lo conosceva bene. Al punto - nel tempo dell’informazione supersonica - da fargli un’intervista durata tre anni, dal 2021 al 2023, ogni sabato fino a poco prima della sua scomparsa. Oggi, quella chiacchierata informale nei toni e gravida di contenuti, è confluita nel volume Conversazioni sul futuro.

«La grandezza del pensiero di De Masi - racconta Gambino - era nella capacità di spingersi oltre, di guardare avanti. Di cercare di immaginare il domani, muovendosi tra saggi e romanzi, economia e politica». Un po’ sulla scia del grande economista John Maynard Keynes, un altro dalla formazione poliedrica, chiamato nel 1930 a profetizzare come sarebbe stato il mondo dei suoi nipoti, un secolo dopo. «Prospettive economiche per i nostri nipoti», appunto, il titolo della conferenza alla Società delle Nazioni. In quarantacinque minuti di tempo le «prese» tutte, figurandosi quel 2030 così lontano. Nel senso che il mondo descritto, quello delle macchine che faticano al posto dell’uomo, dell’orario di lavoro ridotto e del tempo liberato, somiglia tremendamente all’oggi. Almeno nelle sue prospettive. Ecco, De Masi fa la stessa cosa o, meglio, più che immaginare il futuro prova a immaginare soluzioni per il futuro. A far uscire l’uomo dell’indeterminatezza dell’Ulisse di Joyce, una storia senza capo né coda in cui ognuno vede quello che vuole. Cioè nessuno vede niente. «Per farlo - rileva ancora Gambino - non rifiuta il progresso e le sue tecnologie. Anzi le cavalca e le mette al servizio di un modello incardinato sul concetto di “ozio creativo”, l’unico capace di intervenire sul rapporto critico tra infelicità e lavoro». I giovani lavorano come matti, guadagnano nulla, non hanno tempo per niente. E allora si licenziano.

Come se ne esce? «Operando delle differenze - spiega -: per De Masi il facchino fatica, l’impiegato lavora e il giornalista si esprime. Non è la stessa cosa». E quindi si agisce in maniera diversa. Le macchine faranno il lavoro del facchino e gli altri due lavori, meno debilitanti e più intellettuali, saranno condotti da casa, in smart working, sanando la spaccatura tra casa e luogo di lavoro. Lavoro che, per inciso, dovrebbe ridursi nel suo tempo, un po’ come in Germania dove si lavora di meno e si produce di più.

«Insomma - conclude Gambino - l’idea è quella di liberare l’uomo il più possibile dalle maglie delle scontento materiale e affidare alla cultura il compito di ricostruire il senso del nostro essere qui». In fondo, diceva De Masi, si campa una volta sola. O, almeno, questa è la voce che si è sparsa. 

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