Leopardi «giovane favoloso» nel film di Mario Martone

di OSCAR IARUSSI

BARI - «I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto». È un frammento dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, protagonista di Il giovane favoloso (così definito in un passo di Anna Maria Ortese), nelle sale cinematografiche da domani dopo gli applausi ricevuti all’ultima Mostra di Venezia, dove però non ha vinto alcun premio tra i principali. Lo ha diretto Mario Martone, firmandone la sceneggiatura insieme alla moglie Ippolita di Majo, ma meglio sarebbe dire che lo ha «vissuto», preparato per alcuni anni con il rigore e la passione che sono propri del cinquantenne regista partenopeo sia in teatro sia al cinema, da Morte di un matematico napoletano a Noi credevamo.

Non meno «carnale», lungo il confine sempre rischioso dell’immedesimazione, risulta la prova di Elio Germano. Il giovane attore ingaggia un corpo a corpo che esula dalla mera interpretazione e dà vita alla performance di un Leopardi gibboso e cagionevole fin dalla tenera età, ma anche represso ed esplosivo, contenuto e libertario, lirico e filosofico. Un «nanerottolo», come lo sfottevano a Napoli, eppure un gigante.

Nella filigrana del film si rivela il complesso rapporto fra «tutto» e «nulla» che vibra nella vita e nelle opere di Leopardi. È una dialettica interiore rivisitata con efficacia in Il giovane favoloso, dall’infanzia agiata e segnata dallo studio in quel di Recanati sotto lo sguardo severo del padre conte Monaldo, il «tiranno buono» cui è difficile ribellarsi (ha scritto Elio Gioanola), alla fuga verso Firenze e Roma, all’approdo a Napoli sempre con l’amico fraterno Antonio Ranieri (l’attore tarantino Michele Riondino, assai convincente). Fino alla morte nel 1837 ad appena 39 anni nella città vesuviana, dove Leopardi è sepolto.

Martone contribuisce a restituire Leopardi per quel che è: un nostro contemporaneo. Perché l’infelicità personale, con licenza del secolo «superbo e sciocco» (il XIX come il XXI?), è elaborata a mo’ di rifiuto del delirio di onnipotenza della modernità e della cultura con la sua presunzione di dominare la natura. Quanto è vana la pretesa dell’uomo di iscrivere le stelle fra le masserizie, si legge nelle Operette morali e in particolare nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo che fu scandagliato da Eligio Resta in un suo bellissimo saggio sui «paradigmi dell’osservatore» (Laterza 1997).

In una stagione in cui si ciancia spesso di ottimismo e di pessimismo, giova evocare l’amara ironia della Ginestra circa «le magnifiche sorti e progressive». Per la radicale e tenace malinconia del suo filosofare (un «gufo» ante litteram), Giacomo Leopardi pagò dei prezzi altissimi, come si vede nel film: non vinse dei premi, si alienò talune amicizie, fu reietto dai salotti letterari. Conquistato dal mentore Pietro Giordani all’«italianismo», la pulsione risorgimentale invisa al padre Monaldo (le Marche erano pur sempre nello Stato pontificio), Leopardi restò tuttavia persuaso dell’impossibilità di concepire «masse felici composte da individui infelici». Egli era dunque controtempo nel tumulto dell’Ottocento in odor di socialismo, sebbene la leopardiana «social catena» possa proiettare «oltre il nulla» e costituire un antidoto alla disperazione (Franco Cassano, Laterza 2003).

V’è qualcosa di neppure tanto segreto che lega Il giovane favoloso a Noi credevamo, configurando i due film come un dittico sull’Ottocento e la nascita di una nazione. L’identità italiana, fin da Dante, è più letteraria che politica. Leopardi scorre in tale flusso negli anni decisivi che preludono all’Unità, sbatte contro le rive della vita pubblica, contribuendo con ciò a definirle. L’Italia non è solo Cavour, Garibaldi, Mazzini con le contraddizioni messe in luce in Noi credevamo, l’Italia sta nell’«Io dubitai» di Leopardi, nel suo elogio della scepsi quale unica provvisoria verità. «Solo chi dubita, sa».

È il Leopardi dell’assenza dalla Storia che lampeggia – e che amiamo – nell’opera di Martone. È un poeta e pensatore quasi zen per l’esperienza e la sfida della contemplazione: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai / Contemplando i deserti; indi ti posi».

Tra ascesi e rivolta, il «giovane favoloso» fa l’Italia portandoci oltre il paese delle maschere, dei campanili e dell’eterna commedia grottesca. Oltre la politica. Grazie a lui l’inazione diventa essenziale alle frontiere del Nulla concesse solo ai temerari, come sulle pendici del vulcano in eruzione. D’altronde, l’aforisma assorto o caustico, la nota autobiografica, la traduzione del frammento, il lacerto dello Zibaldone è un carattere che spesso dimentichiamo di poter giocare nella comparazione letteraria europea.

Nel film la colonna sonora del tedesco Apparat, alias Sascha Ring, alterna ritmi alla Sigur Rós con le musiche di Rossini prediletto da Martone, mentre una lucciola viene avvistata e subito uccisa da alcuni giovani a Recanati. E lì pensi che solo alcuni poeti sono necessari. Come il Pasolini raccontato da Abel Ferrara nel suo ultimo film ancora sugli schermi; sì, il poeta della «scomparsa delle lucciole».
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