Lo Stato vende gli uffici il privato non paga l'Ici Un regalo da 1,5 mld

di MASSIMILIANO SCAGLIARINI

Si chiama Fondo immobili pubblici, ma il nome non deve trarre in inganno. Perché il Fip è il contenitore (privato) che sta vendendo un bel pezzo degli uffici statali: sedi di ministeri, Inps, Inail, caserme, interi palazzi nelle maggiori città italiane. Ed oltre a 394 proprietà, valutate all’epoca poco meno di 4 miliardi, nel 2001 il governo Berlusconi ha concesso al Fip un privilegio che non ha eguali: quegli immobili non sono pignorabili, le operazioni non sono soggette a tassazione, né a Iva, bolli o tasse di registro, non c’è nemmeno l’obbligo di versare l’Ici. Un regalo, quest’ultimo, che vale da solo non meno di un miliardo e mezzo, cioè circa metà di quanto l’Italia ha concesso di risparmiare al Vaticano per l’imposta sugli immobili. Guadagnandosi una condanna dalla Corte Europea di Bruxelles.

L’operazione parte nel 2004, quando il pool di banche incaricato dal ministero dell’Economia seleziona come gestore del Fip la società Investire Immobiliare sgr, che fa capo a Banca Finnat Euramerica ed è guidata da Arturo Nattino. Finnat è una banca senza sportelli, dove viene accolto soltanto chi possiede grandi patrimoni: il patriarca, Giampiero Nattino (padre di Arturo), è guarda caso consultore della Prefettura degli affari economici della Santa Sede. Dalle sue mani, negli ultimi trent’anni, sono passati molti dei business immobiliari del Vaticano.

Lo scopo dell’operazione Fip era l’abbattimento del debito pubblico, ma anche il contenimento di quanto ogni anno si spende per mantenere gli uffici. E dunque, nella Finanziaria 2004 il ministro Domenico Siniscalco può iscrivere a bilancio 3,7 miliardi di entrate, pari al valore di quegli immobili in cui sono ospitati pezzi importanti dell’amministrazione centrale. Ma soprattutto, conferendoli a un privato, lo Stato può abbassare i costi di gestione degli uffici: perché dopo aver venduto, l’Agenzia del Demanio ha firmato un contratto di locazione da 270 milioni di euro l'anno che scadrà nel 2022 e ogni anno viene aggiornato all’inflazione. Un bel pezzo dello Stato, insomma, oggi è inquilino del Fip. E dopo tre anni, cioè dal 2007, il fondo ha anche cominciato a dismettere le proprietà.

Dei 394 immobili iniziali inseriti nel Fip, al 31 dicembre ne sono rimasti 254. Sono tutti uffici, quasi tutti di enorme pregio, per una superficie totale di 2,9 milioni di metri quadrati ed un valore di mercato stimato in 2,9 miliardi (cioè quasi il doppio del valore patrimoniale del fondo). Le proprietà sono in gran parte concentrate tra Piemonte, Lombardia e Lazio, mentre al Sud la prima regione è la Puglia, dove c’è il 3,6% del patrimonio (la Basilicata pesa per lo 0,4%): sedi Inps, Inail, Inpdap, ministeri, le caserme della Finanza e le agenzie dello Stato.

A Bari, ad esempio, appartengono al Fip (e sono in vendita) tre immobili di gran pregio. La sede dell’Inail su lungomare Trieste (12mila metri quadri di superficie commerciale), la sede ex Inpdap di via Oberdan (11mila), la parte «pubblica» del complesso Executive Center (19mila metri quadri) che ospita l’Agenzia del Territorio, l’Agenzia del Demanio, l’Agenzia delle Entrate e il ministero dell’Economia, oltre alla Cittadella della Finanza del quartiere San Paolo (123.000 metri quadrati) che per il momento non è in vendita. A Taranto, il Fip possiede la Motorizzazione, a Lecce la sede Inps, a Foggia la sede del ministero del Lavoro che sta per essere alienata. A Bari, negli scorsi mesi, è stato invece venduto il palazzo Inps sul lungomare Nazario Sauro, acquistato da una società che fa capo all’immobiliarista di monopoli Luigi Di Mola, 83 anni, che si è aggiudicato pure la sede di Taranto.

Alla base dell’operazione Fip c’è un decreto legge del 2001, il numero 351, scritto e voluto da Giulio Tremonti nel settembre di quell’anno e convertito dal parlamento due mesi dopo. Il «regalo» per il «patrimonio separato» è all’articolo 2, comma 6: non soltanto il fondo «non è soggetto alle imposte sui redditi né all'imposta regionale sulle attività produttive», ma gli atti di vendita «sono esenti dall'imposta di registro, dall'imposta di bollo, dalle imposte ipotecaria e catastale e da ogni altra imposta indiretta». Ma soprattutto, per quanto riguarda l’Ici, il decreto individua come soggetti passivi i gestori del fondo, specificando però che pagano l’imposta sugli immobili «nei limiti in cui l'imposta era dovuta prima del trasferimento». Siccome prima del trasferimento l’Ici non era dovuta (lo Stato non versa imposte a se stesso), ecco che il gioco è fatto: fino a quando mantiene la proprietà, Fip non deve pagare un centesimo.

È molto difficile dire quanto vale questa esenzione, perché la ricostruzione catastale è complicata. Ma si può tentare una stima. Per i soli immobili pugliesi e lucani oggi il Fip risparmia circa 6 milioni di Ici: fatte le dovute proporzioni, si può dire che il patrimonio attuale del fondo Fip (senza ciò che è già stato venduto) avrebbe dovuto pagarne non meno di 150. Moltiplicando questa cifra per i 10 anni dal 2004 al 2013, si ottiene appunto (e con molto difetto) un miliardo e mezzo di Ici non versata ai Comuni interessati.

Il 19 dicembre 2012 la Commissione europea ha chiuso l’inchiesta sull’Italia per aver esonerato la Chiesta dal pagamento dell’Ici sugli immobili commerciali. L’Anci ha valutato il mancato introito per i Comuni in circa 6-800 milioni annui, che moltiplicati per i 6 anni di esenzione porta il totale tra i 3,5 ed i 4 miliardi.

Le 13.292 quote del fondo Fip sono state collocate tra investitori istituzionali (banche, fondi pensione, assicurazioni, finanziarie) tra cui spicca la Sopaf della famiglia Magnoni che su questo ha fatto un bel business anche con il fondo pensione dei giornalisti. Al 30 giugno 2005 le quote Fip valevano circa 108mila euro, al 31 dicembre 2008 aveva toccato i 138mila euro, al 30 giugno scorso erano scese a 118mila: ma ogni semestre il fondo distribuisce 5-7mila euro di proventi di gestione pro-quota. A giugno, peraltro, Fip ha tagliato il traguardo del miliardo di euro di dismissioni. Ed è sempre la solita storia: un affare per pochi, con i soldi di tutti.

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