Vendola: devo tutto a don Tonino Bello Diventammo inseparabili

di BEPI MARTELLOTTA 

«La sua santità non è stata un codice magico, un'aureola o una nuvoletta: è stato lo sguardo dell'Angelo e un'ala di riserva, con cui ha spiegato a tutti la sua scelta più bella e sofferta, quella di pregare e operare tra gli uomini». Per Nichi Vendola quei 10 anni di sodalizio con Don Tonino Bello, dall’approdo al vescovato di Molfetta fino alla scomparsa, il 20 aprile del 1993, sono difficili da raccontare. Anni di battaglie comuni, lui giovane militante del Pci ad un passo dalla «scalata» in Parlamento, l’altro - il «prete Bello», l’uomo della Pax Christi - a lottare per una Chiesa diversa, più lontana dalla borghesia cattolica e più vicina alla carità. 
Spesso tradito dalla commozione, il presidente della Puglia prova a raccontare chi era il «suo» don Tonino. 

Cominciamo dall’inizio: quando e come vi siete conosciuti? Lo conobbi subito, nel primo incontro che tenne a Terlizzi nell'auditorium di monsignor Garzia, nel settembre dell’82. Papa Woytila aveva messo ai margini la teologia della liberazione e quelli come me erano fortemente polemici: vedevano una Chiesa trionfante in «technicolor» che, sotto gli abiti talari e dietro le quinte delle sacre rappresentazioni, si dedicava a maneggi di ogni genere col potere. Malata di temporalismo, la Chiesa era piena di trafficanti e indulgenti: c'era già tutto quello che poi ha portato, in epoca più recente col pontificato di Ratzinger, all'esplosione degli scandali. Non lo ascoltavo con simpatia quel prete così suadente, progressista, affascinante. Polemizzai con lui, lo provocai. Ebbe un modo disarmante di rispondermi: mi sorrise e mi disse «vediamoci, incontriamoci». Io che avevo provato a spiazzarlo, rimasi spiazzato. 

Nacque l’amicizia. Sì, ero adirato con la Chiesa, e lui cominciò a farmi leggere i suoi editoriali su «Luce e Vita»: divenne una malattia per tutti, fummo contagiati dai suoi articoli. La bellezza e la scandalosità delle sue parole rispetto al perbenismo piccolo-borghese che impacchettava la vita del Clero in un cattolicesimo pacificato, pronto a fare sconti soprattutto ai potenti, fu un’illuminazione. Don Tonino parlava di disoccupati e carcerati, ci educò al pensiero critico, ci insegnò non a consolare gli afflitti, ma ad affliggere i consolati. Ci spiegò che i poveri non vanno aiutati con l'ottica neo-coloniale e che bisogna dividere con loro non solo il pane. Ecco, quei «terminali muti» della carità dei ricchi, furono la costruzione più farisaica che don Tonino provò a smobilitare. 

Vi incontravate spesso? Avevamo colloqui privati frequenti e intensissimi nell'episcopio a Molfetta. Lui seduto su un banchetto umile e l'ospite su una specie di trono. Quando mi guardava avevo sempre la percezione di interagire con un uomo che non aveva retro-ensieri: ti accoglieva sempre per quello che sei, non aveva mai intenzione di reclutarti, ma di capire. Perché amare è innanzitutto capire. Per don Tonino convertire non è colonizzare, non è ridurre l'altrui diversità alla propria cifra, ma è crescere insieme. Lui cercava lo spazio perché potessero pregare coloro che credono in un dio diverso, lui si faceva pellegrino nel cuore della notte alla ricerca del volto di Dio in quello di un barbone o di un immigrato smarrito nei labirinti della clandestinità. Don Tonino lo ricordo per strada, a celebrare lì l'eucarestia viva, che è comunione tra cielo e terra, benedetta dalla «aristocrazia degli ultimi». La sua missione era una vera inversione semantica: una croce di spine è una corona da re. 

Che anni erano, quelli? Eravamo in una fase di passaggio: l'Italia smetteva di essere Paese da cui partono i migranti e diventava Paese in cui arrivano i migranti. Questo percorso di educazione all'accoglienza, di intransigenza con la xenofobia, lo accompagnò nei giorni dello sbarco della «Vlora», i giorni in cui si mescolarono la generosità dei pugliesi e l'ignavia dello Stato, che si ritraeva dai propri doveri di solidarietà. Era lo stesso spirito che lo guidava per strada, a intrattenersi con ragazzi paraplegici o non vedenti, negli scantinati e nelle case: era un uomo che abbatteva tutte le barriere, era capace di abbracciare chiunque senza un codice preventivo. Lui andava incontro, traduceva l'approssimazione nel suo doppio significato: farsi prossimo, avvicinarsi, e nello stesso tempo sapere di sè che si è portatori di un pezzo di verità, perché la verità c'è solo nella relazione, nell'abbraccio con l’altro. 

Ma che ci faceva un giovane comunista con un vescovo, per quanto «diverso» dagli altri, in quegli anni? Intanto, era sempre curioso. Mi chiedeva notizie sulle posizioni del Pci nella corsa al riarmo di quegli anni. E mentre parlavo, lui mi ascoltava, ma si guardava sempre attorno perché cercava un dono. Era difficile andarsene via a mani vuote da un colloquio con lui, perché ti considerava un dono. Il suo punto di riferimento era Isaia, il profeta della conversione della società, colui che aveva delineato l'immagine di una società in cui non si producono strumenti di morte ma di lavoro, in cui gli individui non si esercitano alla violenza. «Nessun uomo leverà le armi contro un altro uomo»: era lì che Isaia avviava una riflessione tutta teologica ma assolutamente immersa nell'arena della Storia. Ed era lì, in quel punto, che due storie di vita apparentemente lontane come le nostre non potevano che essere unite. 
[...] 

Sono trascorsi vent’anni dalla sua morte: le manca? Per molti anni ho vissuto la sua morte come un abbandono. E questi ultimi sono stati quasi di disincanto, di gelo. Quante volte ho chiesto «don Tonino, dove sei?». Ogni vicenda la leggo sempre pensando cosa avrebbe detto lui: il suo punto di vista è sempre stato una bussola per me. Proprio in questi giorni di buio e smarrimento, torna ad accarezzarci i cuori e a farci tornare la voglia di sperare. Niente di più bello è la preghiera in cui dice: «dicono che gli uomini sono angeli con un'ala soltanto, devono abbracciarsi per poter volare». Questo è don Tonino.
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