«Di Cagno Abbrescia» verso la vendita  E' pezzo di storia di Bari

di MASSIMILIANO SCAGLIARINI 

Una ennesima residenza per studenti, o magari una foresteria, o chissà - ma è più difficile - abitazioni nel verde. C’è solo una certezza. Il Di Cagno Abbrescia, un pezzo della storia di Bari, non sarà mai più una scuola. Questa è la storia di una istituzione floridissima, il cui patrimonio immobiliare è stato progressivamente dissipato anche per colpa di investimenti finanziari sbagliati. Fino all’epilogo, avvenuto pochi mesi fa nel più assoluto silenzio: i padri Gesuiti hanno cancellato il vincolo che li obbligava a destinare a scuola il grande complesso di corso Alcide De Gasperi. È - ovviamente - l’atto propedeutico alla vendita. 

L’atto firmato l’8 marzo davanti a un notaio romano non è però che il punto di arrivo di un declino ormai inesorabile. Con quelle poche righe, l’obbligo a utilizzare la struttura di Carrassi «a scopi di istruzione o di educazione» è stato trasferito sulla scuola media che i gesuiti hanno costruito alcuni anni fa a Scutari, in Albania. E dunque la donazione con cui nel 1925 i nonni dell’ex sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia lasciarono ai padri della Compagnia di Gesù un loro palazzo in via Napoli (poi venduto per costruire la sede attuale), non andrà più a beneficio dei giovani baresi: ora quel regalo è stato «girato» ai ragazzi albanesi, senza aver consultato né la famiglia Di Cagno Abbrescia né la famiglia Calò Carducci, che invece negli anni ‘60 donò il suolo su cui fu realizzata la scuola. 

Il Di Cagno Abbrescia gestito dai gesuiti ha chiuso nel 2001. Il tentativo di farne una scuola privata è fallito nel 2004, con lo sfratto dell’imprenditore romano Mauro Azzurrini e il licenziamento di 41 dipendenti. Da allora l’istituto, nei fatti, non esiste più, ma non ha cessato di operare. Nel 2007 la proprietà della scuola, che vale parecchi milioni di euro, è stata trasferita dall’Istituto alla Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù, cioè la sede romana della congregazione fondata da sant'Ignazio di Loyola. La stessa sorte è toccata ai quattro appartamenti che l’Istituto aveva acquistato a Bari negli anni ‘80 (in piazza Diaz, in via Goffredo di Crollalanza, in via Benevento), un tesoretto valutato all’epoca due miliardi di lire di cui oggi resta soltanto una flebile traccia: anche queste proprietà nel 2007 sono finite a Roma, e di qui - in parte - sono state girate a due religiosi ormai in pensione. Ma ci torneremo. 

La domanda è: che cosa ha spinto i Gesuiti a smobilitare, svendere, rinnegare una donazione di quasi un secolo fa? Non lo sa nessuno, almeno ufficialmente: la decisione - dicono fonti che non desiderano essere citate - è stata presa direttamente a Roma, nelle stanze della segreteria di Stato del Vaticano. Ma forse si può trovare una traccia nella vicenda di cronaca che nei primi anni 2000 ha coinvolto un finanziere di origini baresi, Alfredo Bonvino, una sorta di precursore di Maddoff, protagonista del crac da 100 miliardi di lire del Credito Commerciale Tirreno di Salerno: una vicenda per cui Bonvino deve scontare una condanna in Appello a 10 anni e 6 mesi. Ebbene, tra i finanziatori di Bonvino e delle sue società c’erano anche i Gesuiti: tramite un loro consulente finanziario, nome molto noto in città, a metà anni ‘90 i gesuiti del Meridione hanno acquistato 5 miliardi di lire in obbligazioni e pronti contro termine. E una parte dei soldi arrivava dalle casse della Comunità dei padri gesuiti di Bari: cioè, in ultima analisi, dall’Istituto Di Cagno Abbrescia. 

A un certo punto Bonvino è saltato. Dopo il crac i gesuiti hanno tentato di farsi ridare i soldi indietro da Consob e Banca d’Italia, accusandole di non aver vigilato. Ma invano: nessuno degli investitori, per quanto è stato possibile ricostruire, è mai riuscito a recuperare un solo centesimo. C’è un collegamento tra quell’investimento sbagliato, la chiusura del Di Cagno Abbrescia e delle sue aule in cui è passata gran parte della borghesia della città, e la svendita del suo patrimonio immobiliare? Difficile dirlo. Di certo c’è che nel 2007 la proprietà di due di quegli appartamenti è stata trasferita a padre Rodolfo Bozzi e padre Michele Caratù, due gesuiti ormai anzianissimi che i frequentatori del Di Cagno non potranno non ricordare. Ebbene, sotto uno di quegli sfortunati investimenti c’era proprio la firma dell’ex rettore padre Bozzi.
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