di ENRICA SIMONETTI
IN NAVIGAZIONE NEL MEDITERRANEO - Il tonfo di una cima di ormeggio in acqua è stato l’unico rumore: abbiamo
lasciato una Bari silenziosa, mercoledì prima dell’alba. Buio. Davanti a
noi il mare aperto, scuro, scurissimo e alle spalle la città addormentata,
con le luci fredde delle strade e quelle più calde del castello svevo,
della cattedrale, della Basilica. Tutti abbiamo guardato la sagoma aguzza
del duomo di San Nicola, la chiesa che non esisteva ancora quando i 62
marinai partirono da Bari per Myra e ne tornarono con le ossa del patrono.
Stiamo cominciando il loro stesso viaggio, ripercorrendo - 922 anni dopo -
quel mare oggi così diverso e a tratti così uguale.
Di miglia in miglia, il cielo perde il nero e diventa violetto, poi blu.
Il mare è piatto, illuminato qua e là dal faro di San Cataldo. Navighiamo
costeggiando alla nostra destra, San Giorgio, Torre a Mare, poi Mola,
Monopoli. Tutto sembra confuso e irriconoscibile per la foschia del
mattino.
In pieno giorno, verso Brindisi, ci allontaniamo dalla
terraferma: il comandante di “Ideadue”, la goletta a vela che ci sta
portando sulle tracce della traslazione di San Nicola (con il progetto di
Vincenzo Catalano “Ex Oriente Lumen”, fortemente voluto dalla Basilica di
San Nicola e sponsorizzato dalla Banca Popolare di Bari), ha deciso di
attraversare in questo punto l’Adriatico e non più giù, nel canale
d’Otranto, perché i venti ora sono favorevoli. Le coste pugliesi adesso
appaiono più sbiadite, distanti, ma si vede ancora per diverse miglia la
torre della centrale di Cerano, altissima, imponente, con la sua colonna
di fumo in cima.
Il presente, inspiegabilmente, ci riporta con il pensiero al passato. I
marinai che nel 1087 affrontarono questa impresa dalla Puglia alla Turchia
viaggiavano sulle “caracche”, le caravelle a remi che oggi vediamo
riprodotte nei dipinti e nelle icone. Affrontavano il mare al buio,
carichi di grano che andavano a vendere in Turchia, perché – come
documentano le ricerche storiche – tra loro non c’erano solo uomini di
mare, ma anche commercianti. E la stessa idea di prelevare le reliquie di
Nicola, che a quei tempi era già famoso da Oriente a Occidente – secondo
alcune tesi - nacque ad Antiochia, dove i 62 seppero dell’idea dei
veneziani di portarsi a casa il corpo del santo.
In questo mare che adesso ci circonda è impossibile ritrovare lo spirito
di quel viaggio. Ci attorniano di tanto in tanto petroliere enormi, navi
gasiere, e qua e là vediamo macchie immense di olio o cassette di
polistirolo che viaggeranno intonse in questo mare ancora per chissà
quanti decenni.
Ma alle 19,30, dopo aver ammirato uno splendido tramonto, nel bel mezzo
del canale d’Otranto, un evento ci riporta ai viaggi di un tempo: la canna
da pesca alla traina che avevamo messo a poppa della barca, tira
all’impazzata e sembra doversi spezzare. E’ un tonno di oltre 13 chili,
lucido bellissimo, che irrompe a bordo. Segue la lotta dell’uomo, anzi
della donna (la moglie del comandante) e quella del tonno per la sua
sopravvivenza. Un’immagine crudele, fatta di sangue e coltelli, che i
pescatori conoscono bene, tra l’altro “baciata” dal volo bassissimo di un
uccello, che abbiamo sentito come segnale beneaugurale, così come del
resto avvenne in coincidenza di uno dei miracoli nicolaiani.
Quando cala la sera, immaginiamo davanti a noi le coste greche, che il
radar ci segnala. Alle 22,30, nel buio, ci appare la luce del faro di Fano
(Othoni) e dall’altro lato la luna piena. La radio di bordo rimanda ora
voci greche e albanesi, un po’ gracchianti, un po’ confortanti nelle
tenebre. A notte fonda, arriviamo all’isola di Erikoussa che qui chiamano
anche Merlera e ci fermiamo nella baia tranquilla, con il mare che sembra
olio e una chiesetta di fronte a noi arroccata sulla roccia. Domani,
riprenderemo la navigazione verso Kerkira, Corfù, costeggiando Grecia e
Albania e dirigendoci su un isolotto minuscolo ma per noi molto
importante: Ayos Nikolaos, il nostro san Nicola.
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