il personaggio

Addio ad Antonio Di santo, un pugliese illustre tra suolo, acqua e scienza

fabiano amati

Non semplificava per togliere, ma per far arrivare. Come fanno i maestri, che hanno la foga di consegnare il sapere e non di esibirlo

La tutela del suolo e delle risorse idriche sono discipline discrete, non si fanno notare. Finché c’è qualcuno che se ne occupa, tutto sembra ovvio. Quando emergono i problemi – dissesti, frane, siccità – è già tardi per porvi riparo. Di queste discipline discrete, praticate per evitare ciò che non deve accadere, si occupava il discretissimo Antonio Di Santo. Professore universitario di costruzioni idrauliche, per dieci anni segretario generale dell’Autorità di bacino della Puglia, “padre” del Piano di Assetto Idrogeomorfologico (PAI) e del Piano della Costa Bassa, Di Santo è stato soprattutto un uomo che preferiva affamare, con la prevenzione, il “pasto” di vittime di cui si ciba suo malgrado l’eroe. Insomma, un eroismo che non prenota piedistalli per monumenti sempre nuovi, ma evita macerie.

Di Santo era così sobrio da apparire timido. Se fosse dipeso da lui, così viene da pensare, avrebbe scelto come giorno dell’addio proprio quello di Santo Stefano, o un’altra festività comandata, chissà se, nel clamore della festa, qualcuno in più non si fosse perso la notizia, sottraendolo all’imbarazzo di sentir parlare bene di sé. Perché per Di Santo aver fatto bene era la conseguenza dei suoi doveri. Né più né meno.

La sua mente aveva una funzione rara: raffinava. Prendeva la materia grezza delle cose difficili — sorgenti, gallerie, condotte, traverse, stramazzi, frane, crolli — e la restituiva in forma comprensibile, quasi domestica. Non semplificava per togliere, ma per far arrivare. Come fanno i maestri, che hanno la foga di consegnare il sapere e non di esibirlo.

Le voragini di Lesina Marina? Non servivano formule per spiegare la formula, ma un bicchiere d’acqua e una scatola di sale: puoi aggiungere in quel bicchiere il sale che vuoi, ma oltre un certo punto non si scioglie più (saturazione). Se però, pensando di dare maggiore vitalità alla laguna, scavi un canale (Acquarotta) per aprirla al mare, è come se aumentassi l’acqua nel bicchiere e quel sale, prima insolubile, comincia a sciogliersi. E siccome il sale sta al materiale geologico su cui sorge Lesina come la maggiore quantità d’acqua introdotta nella laguna, ecco il dramma delle voragini e dei crateri.

La geologia diventava cucina, la chimica esperienza, e il disastro smetteva di essere un capriccio della natura per tornare a essere una conseguenza.

La frana di Montaguto? Tutti a guardare giù, alla frana che invade la strada ferrata e ai treni che non partono né passano più; lui, invece, invitava a guardare su. Al punto di coronamento del monte sovrastante, dove l’acqua spunta dal suo ventre: più sgorga, più il materiale scende dal monte e invade le strade. Anche una lezione morale, sussidiata dalla fisica: l’origine dei problemi non è dove cadono, ma dove nascono.
Di Santo spiegava la fisica come si insegna l’alfabeto e la chimica e le altre scienze come si contano le dita di una mano. E poi faceva il resto: metteva insieme i concetti come si mettono insieme le frasi, con una sintassi naturale. Le parole, per lui, non erano etichette ma strumenti. E sapeva farle ritrovare tra le pieghe di un ricchissimo e intuitivo vocabolario tecnico, sconosciuto ai più.

Un’onomatopeica concettuale: non una parola che riproduce o suggerisce un suono, ma una parola che fa accadere qualcosa nella mente mentre la pronunci. Una parola che non “spiega” dopo, ma spiega mentre passa. Se una condotta “porta” acqua, la sua capacità è la “portanza”. Se una diga riceve acqua, l’operazione è “l’invasaggio”; un “invaso”, in fondo, vive nell’attesa di essere appunto “invaso”. Se scavi e fuoriesce acqua, quella fuoriuscita è una “venuta”, da contenere.
Parole che spiegavano mentre si dicevano, come se il concetto facesse rumore nel momento stesso in cui prendeva nome.
Così l’idraulica smetteva di essere un sapere arcano e diventava una grammatica. Anche per chi, dell’acqua, conosceva solo il gesto minimo del rubinetto – aprire, chiudere – senza nemmeno sospettare che dietro quel gesto ci fosse una lunga storia d’ingegno e civiltà.

E poi la Pavoncelli bis. Quell’opera che, con la sua vecchia e malandata gemella (la Pavoncelli ammalorata dal terremoto del 1980), porta l’acqua in Puglia dall’Irpinia. Antonio Di Santo raccontava quell’opera ingegneristica come si raccontano le storie d’inverno davanti al camino: i tentativi falliti per realizzarla, i soldi sprecati, le talpe abbandonate e sepolte per sempre, gli scavi complicati dall’argilla azzurra, materiale molto più difficile da lavorare nonostante la seduttività del suo nome.
Nella pubblica amministrazione stava come stava nella scienza e in tutte le cose: lavorando con realismo, senza illusioni. Accettava i riconoscimenti con un sorriso appena accennato. E quando qualcuno non voleva proprio capire il meglio da farsi, non alzava la voce. Diceva solo: “e noi, per prudenza, mettiamo una carta a protocollo”. Una frase mite, che conteneva una profezia: se qualcuno, un giorno, avrà da ridire, leggerà la nostra carta a protocollo e capirà che noi l’avevamo detto. A scanso di equivoci.

Gli unici gesti di eversione erano consentiti sugli spalti dello stadio per tifare il Bari. E mentre John Clark, in Shall We Dance, era l’ultimo uomo “fabbricato” con il fazzoletto di stoffa, così da tirarlo fuori per asciugare le gote piangenti di una ragazza, Antonio Di Santo era l’ultimo uomo “fabbricato” con la coppola che si toglieva per salutare. Un gesto di signorilità, antico, come la sua idea di competenza: il molto sapere mostrato quanto basta, senza strafare.
Anche per questo sembrava destinato a durare, nell’incedere dei giorni, tra Bari d’inverno e Laureto di Fasano d’estate.
Ma Antonio Di Santo, come tutti, se n’è andato e lo ha fatto, pensiamolo così, togliendosi la coppola e accennando a un lieve sorriso. Lasciandoci argini che tengono, piani che funzionano e le sue parole che restano con noi.

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