il commento
Recupero dei corpi intermedi, le diverse strategie per il rilancio sindacale
Per «corpi intermedi» si intendono quelle organizzazioni, associazioni di categoria, formazioni sociali di vario tipo che svolgono la funzione di ponte tra la società e lo Stato
Per «corpi intermedi» si intendono quelle organizzazioni, associazioni di categoria, formazioni sociali di vario tipo che svolgono la funzione di ponte tra la società e lo Stato. Il loro compito è quello di dare rappresentanza ad interessi specifici e di «intermediare» fra le diverse esigenze dei cittadini da una parte e le attività di policy making dall’altra, ovvero tutte quelle attività che consentono alla classe dirigente di un Paese di poter programmare, deliberare e valutare le decisioni più strategiche ed urgenti. Le società con corpi intermedi strutturati, che affondano la propria legittimazione nella cultura sussidiaria (in senso generale e non solo in quello di welfare) e che sappiano muoversi all’interno del modello reticolare sono le più solide e anche le più aperte al nuovo.
Il processo riformatore, di cui ha bisogno il nostro Paese in ottica di totale o parziale ripensamento del paradigma della globalizzazione e per gestire al meglio le complessità legate all’attuazione delle tre più importanti transizioni (energetica/ambientale, digitale e demografica), comporta anche il contrasto della disintermediazione. Va potenziato il vincolo, ormai naturale, tra Stato, mercato e comunità locali nell’ottica di preservare le più significative identità territoriali, ma operando sempre dentro una cornice di coesione nazionale che riduca anzitutto le disuguaglianze economiche e sociali.
È un ragionamento che si sviluppa in modo speculare alla necessità di risolvere la crisi della rappresentanza politica, di cui l’astensionismo è certamente una manifestazione chiara e diffusa in molti Paesi occidentali.
Quello che va evitato ad ogni modo è che ai costi della crisi della rappresentanza politica si aggiungano anche quelli dovuti alla crisi della rappresentanza sociale a fronte delle vulnerabilità innescate da situazioni di significativa instabilità a livello geopolitico e geoeconomico. È un’impresa non facile, specie nell’era della ipersemplificazione e della polarizzazione spinta, ma che va portata avanti con determinazione, nella consapevolezza che democrazia rappresentativa e democrazia diretta non sono incompatibili tra di loro. Ad essere incompatibile è solo il loro uso distorto.
È necessaria una ridefinizione di nuovi spazi pubblici di partecipazione, insomma la ristrutturazione di quella «sfera della vita sociale che si colloca tra la famiglia e lo Stato», come Hegel definiva i contesti nei quali maturano interessi specifici da porre al centro dei processi regolatori più importanti. Se non si opera in questa direzione, è probabile che si consolidi il modello della «post-democrazia», modello con il quale, almeno nel linguaggio delle scienze sociali, ci si riferisce alla partecipazione dei cittadini ai processi decisionali in modo solo formale e non anche sostanziale. In questo quadro la colpa più grande che hanno i corpi intermedi è quella di non aver rinunciato, salvo rare eccezioni, ad una visione corporativa secondo un’impostazione antiquata e poco spendibile nel contesto dinamico e flessibile della postmodernità.
Sarebbe stato meglio che essi avessero operato in direzione di una reinterpretazione dei principali bisogni sociali, colmando il vuoto generato tra individuo e Stato. Sarebbe stato meglio, altresì, se fossero stati dati segnali inequivocabili in favore delle ragioni del dialogo, del confronto e della responsabilità.
È un’impostazione quest’ultima che si mostra di particolare interesse per la sua spiccata funzionalità sociale quando il ragionamento generale sui corpi intermedi riguarda il terreno agentivo più specifico dei sindacati. L’esperienza degli ultimi mesi richiede una riflessione attenta su come la rappresentanza dei lavoratori si è sviluppata, considerando sia il piano generale, sia quello più particolare. Volendo rendere l’analisi priva di riferimenti eccessivamente tecnici e soprattutto emblematica di quello che sta accadendo, possiamo affermare che nell’ultimo periodo si sono consolidati sostanzialmente due modelli. Il primo è quello della Cgil di Maurizio Landini. Il secondo è quello della Cisl di Daniela Fumarola.
Nel caso della Cgil lo strumento principale per tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati resta quello dello sciopero. Soluzione adoperata oltretutto nell’ambito di un contesto culturale che è quello dell’antagonismo ideologico. Si sono moltiplicate logiche assai problematiche come quelle del «tutto o niente» (si veda l’atteggiamento tenuto su alcuni dei contratti del pubblico impiego), della sovrapposizione di ruoli tra sindacato e partito politico, del movimentismo e della rivolta sociale, oltre che di quell’ostilità preconcetta che non tiene conto delle situazioni più critiche da affrontare e provare a risolvere, secondo un approccio sistemico.
Nel caso della Cisl, invece, l’azione sindacale si sta fondando sulla filosofia della rinuncia aprioristica alla demagogia, della determinazione a scrivere un vero e proprio «patto sociale» tra tutti gli attori in campo. Patto che, in sintonia con il pragmatismo e la politica dei piccoli passi, consente di perseguire qualche obiettivo concreto da mostrare agli iscritti (e non solo) come dimostrazione di buon senso e come contributo al miglioramento delle condizioni generali del Paese. È una filosofia che forse non permette di portare a casa tutti i risultati auspicati, ma che certamente persegue quelli possibili o probabili, considerando anzitutto il quadro della finanza pubblica.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla manovra economica da mesi al centro dell’attenzione, non senza colpi di scena. Le parole, anche se roboanti, ingaggianti ed efficaci non bastano per restituire il senso di una direzione di marcia necessaria per il futuro dell’Italia, così come sono inutili e fine a sé stesse le esibizioni muscolari a livello mediatico e gli sconfinamenti in terreni che non sono esattamente quelli del sindacato. A parere di chi scrive serve, al contrario, la fattualità e il radicamento delle scelte alle evidenze empiriche. È una questione di «meta sindacato» oltre che di «meta politica».
Il modello del confronto con il governo, anziché quello dello scontro frontale, presuppone un grande investimento sul metodo, prima ancora che sul merito dei singoli dossier. Senza la definizione del modus operandi generale, infatti, diventa più difficile entrare nel vivo delle emergenze sociali e di tutti i problemi avvertiti dalla stragrande maggioranza delle persone come vere e proprie urgenze. Soprattutto, diventa impossibile individuare e condividere le soluzioni più praticabili. Affinché da lavoratori e pensionati sia percepibile il ruolo e l’utilità dell’azione sindacale, a maggior ragione nell’era del superamento del rapporto lineare di causa ed effetto dei fenomeni macro e micro sociali per dirla con Edgar Morin, occorre sviluppare uno sguardo lungo e rilevante dal punto di vista diacronico, ma anche largo e, quindi, capace di attraversare tutti i settori nei quali si sta giocando l’ambiziosa partita della ridefinizione del valore del lavoro, in ogni modalità attuativa.
Non basta la pur cruciale questione dei salari, purtroppo ancora troppo bassi. È necessario trovare idee nuove (ma realistiche) per sollecitare la crescita, considerando l’esaurimento entro il prossimo anno della spinta data dal Pnrr.
È necessario aumentare la produttività anche in ottica di contrasto alle diverse forme di precarietà. Serve accrescere le occasioni per potenziare e migliorare le modalità d’interazione tra sistema pubblico e sistema privato. È utile abbracciare con convinzione progetti riformatori nei settori più a rischio, come per esempio la sanità e la previdenza. Con uno slogan potremmo affermare che è necessario «cambiare per non morire», considerando il doppio impulso dato in economia dai fattori esogeni ed endogeni e il portato dell’innovazione tecnologica in molti settori, a partire dall’impatto dell’intelligenza artificiale nella vita delle persone, nella governance delle aziende e delle istituzioni.
I corpi intermedi non possono limitarsi alla gestione dello status quo, come se la realtà fosse cristallizzata da qualche decennio e il mondo intorno non corresse veloce. Non si dimentichi che lo sciopero è una extrema ratio, che dimostra il fallimento della mediazione tra interessi contrapposti. Mediazione che è parte integrante del Dna sindacale. La credibilità dei corpi intermedi passa anche attraverso la misurabilità dei risultati conseguiti, piccoli o grandi che siano. La visione prospettica è quella che fa la differenza. Sono gli interessi dell’Italia che vanno tutelati, non quelli di singole categorie.