L'analisi

Altro che post-verità: siamo nell’era della «pre-verità»

Pino Donghi

Una verità che si impone sulla base di argomenti utili alla dimostrazione delle nostre convinzioni preconcette, per sostenere le quali non esitiamo a piegare qualsiasi fatto

Ancora per un paio di mesi, quest’anno celebreremo il centenario della meccanica quantistica, il cui primo lavoro fu pubblicato nel 1925 a firma di Werner Heisenberg. Sicché non c’è dubbio che il padre indiscusso della teoria che tanto ha rivoluzionato il nostro modo di comprendere l’infinitamente piccolo, abbastanza da meravigliare anche Albert Einstein, sia stato lo scienziato tedesco Max Planck, premio Nobel per la Fisica nel 1918. Non è il suo unico merito. A lui si deve anche una folgorante quanto sconsolata battuta: «Una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, quanto perché alla fine muoiono, e al loro posto si forma una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari». Per confermare che addirittura nell’ambito della scienza, laddove l’evidenza dei fatti misurabili e calcolabili si dovrebbe imporre, le convinzioni personali sono dure a morire.

E per dire che se i social sicuramente amplificano alcuni comportamenti, al limite di una crescita esponenziale (e quindi significativa) delle cosiddette echochambres, quelle comunità discorsive chiuse, dove gli utenti vanno alla ricerca di notizie e opinioni che possano fare massa (a)critica a conferma delle loro precedenti convinzioni, pure la tendenza esiste dai tempi dei tempi, probabile retaggio di consuetudini che possono aver avuto un vantaggio evolutivo. Rassicurante, ma solo in parte, solo per qualche minuto, passato il quale dovremmo far tesoro dell’osservazione e provare, almeno, a sviluppare qualche salutare anticorpo.

Magari volgendo lo sguardo all’attualità, all’infinito dibattito che accompagna l’altrettanto infinito conflitto israelo-palestinese insieme a quello (più recente!?) tra Russia e Ucraina: sul fronte del quale - almeno questo - la convinzione che si tratti di una vera e propria guerra, e non di una un’ «operazione speciale», è convinzione divenuta familiare anche per i precedenti «oppositori». Se e come andrà a finire, in Europa o in medio Oriente, con la vittoria chiara e definitiva di uno dei contendenti o con uno schema coreano a congelare una condizione di perenne-momentanea tregua, non mi azzarderei a fare alcuna previsione, non potendo esibire competenze. Ciò di cui sono invece ragionevolmente certo è che tutti i commentatori, da qualsiasi parte schierati, rivendicheranno di aver correttamente previsto l’esito finale: è sufficiente seguire e analizzare almeno due dinamiche comunicative.

Della prima abbiamo già scritto su queste pagine, e riguarda il nuovo e diverso ruolo del conduttore, in quasi tutte le trasmissioni di approfondimento: quale che sia il tema in discussione, la sequenza di ospiti (in alcuni talk-show si contano a decine) viene convocata non già per offrire agli spettatori il ventaglio di opinioni disponibili ma per sostenere quella preconfezionata della redazione: messo in discussione dal fenomeno della disintermediazione operata per via social, il medium si riappropria del ruolo di unico interprete di ciò che sta accadendo, appoggiandosi all’esperto solo in quanto testimonial di un convinzione acquisita, e convalidata dal conduttore-portatore di verità. La seconda si osserva quando, quale sia la notizia del giorno, conduttori e commentatori vi trovano sempre la riprova delle proprie opinioni, forzandone l’interpretazione in un senso o nell’altro. Comprensibilmente. Nel senso che si capisce bene come l’esito dei conflitti permetterà, agli uni o agli altri, di rivendicare le ragioni espresse fin dall’inizio, da ciò dipendendo la conferma della loro reputazione di opinionisti. Sulle colonne dei giornali, negli interventi in Tv, leggendo i commenti sui social si percepisce il «tifo» non per la soluzione migliore sul campo ma per quella che potrà autorizzare il definitivo: «… io l’avevo detto!».

Acutamente, alcuni studiosi hanno proposto il superamento del concetto di post-verità, segnalando come invece viviamo tutti in un contesto di «pre-verità», una verità che si impone sulla base di argomenti utili alla dimostrazione delle nostre convinzioni preconcette, per sostenere le quali non esitiamo a piegare qualsiasi fatto. Non potendo e certo non volendo augurare la morte a nessuno, compreso chi scrive, sarebbe auspicabile che le «nuove verità» possano essere considerate dagli «oppositori» prima che diventino familiari solo alle generazioni future. Se anche Albert Einstein si è dovuto piegare all’evidenza, raccomanderemmo alla maggioranza dei nostri opinionisti una maggiore considerazione delle opinioni altrui, e un’apertura alla meraviglia. Così da poter prendere atto di una possibile diversa verità, sotto una nuova luce. E ancora da vivi.

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