l'analisi
Al vertice «Cop30» in Brasile i cambiamenti climatici tra ombre e speranze di verità
La conferenza annuale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, che avanza inesorabile, si svolge in un momento di profonda crisi di credibilità e di scarsa rilevanza politica
Lo hanno definito il vertice della verità - la Cumbra de Verdad, nelle parole del presidente brasiliano Lula- anche se la Cop30, vale a dire la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, che avanza inesorabile, si svolge in un momento di profonda crisi di credibilità e di scarsa rilevanza politica, benchè in una cornice unica, dove si intrecciano speranze e minacce: l’Amazzonia.
Belém, la città ospitante, in lingua portoghese traduce «Betlemme», la prima colonia europea, proprio sul bordo della Foresta, fondata più di quattro secoli fa. Per qualcuno, la culla possibile di un nuovo inizio (vedremo la proposta interessante, formulata proprio dai brasiliani), intanto però in un clima soffocante, che registra un tasso di umidità del 90%. Aver scelto Belém - oggi un polo industriale di circa un milione mezzo di abitanti e il suo forte valore simbolico - comporta tuttavia una serie di svantaggi. In vista della Conferenza sul clima, i prezzi sono infatti schizzati alle stelle - pare più di mille euro a notte negli alberghi - mentre nelle note per i partecipanti è comparsa la curiosa indicazione di usare abbigliamento informale. Dunque un vertice in camicia, consigliata anche agli esponenti di governo, che però lascia probabilmente a casa quel mondo inclusivo, promosso dalla Cop (organizzazioni non governative, ambientalisti, giornalisti, scienziati) non finanziato dalle grandi imprese dei combustibili fossili, presenti nelle edizioni precedenti e soprattutto a Baku, in Azerbaijan, dove i lobbisti avevano raggiunto il numero spropositato di 1.700 delegati. Se dunque lo schema si ripete: una massiccia presenza di lobbisti al fianco dei governi, che rappresentano quasi il 60% dell’industria del petrolio, del gas e del carbone, con progetti di incremento delle estrazioni che arriverebbero a coprire l’intera superficie continentale del nostro pianeta (inchiesta del quotidiano inglese TheGuardian, che cita il centro di analisi KickBigPollutersOut), quali potrebbero essere le grandi attese di questa ennesima conferenza sul clima? Potrà servire a definire meglio la mappa dei partecipanti, l’obbligo fissato nelle linee guida del vertice di indicare da parte dei delegati il nome di chi li paga, ma come si supera l’indifferenza alle emissioni di gas serra, che ci avvelenano e che mettono a rischio la Terra, nell’obiettivo disatteso dai governi di tagliarle?
Le conferenze sulla lotta ai cambiamenti climatici, in questi trent’anni, si sono succedute tra fallimenti e significativi successi. Hanno in parte promosso la giustizia climatica tra paesi inquinanti e paesi inquinati, l’inclusione sociale, la coscienza ambientalista espressa soprattutto dai giovani, lo sviluppo sostenibile che ha informato la ricerca scientifica e le sue applicazioni in tanti campi della vita quotidiana. Il famoso protocollo di Kyoto del 1997 sul surriscaldamento globale, condiviso anche dalla Russia nel 2005 e poi da 191 paesi nel 2013, l’accordo di Parigi del 2015, sottoscritto anche dal presidente Obama e dal leader cinese Xi Jinping rischiano oggi di rimanere tappe di una storia superata a fronte di interessi nazionali sempre più sfrontati, nel vuoto degli interessi comuni e delle sensibilità infiacchite dei cittadini. Belém propone allora la sua sfida azzardata, forse velleitaria, che apre a nuovi percorsi, nuove alleanze, nuove narrazioni, nella prova di alternative possibili, semplicemente perché va fatto.
Lo scorso anno la temperatura del pianeta ha superato la soglia critica del +1,5° e continua a salire. Non importa che al vertice brasiliano siano presenti solo una sessantina tra capi di stato e di governo, rispetto alla partecipazione doppia o tripla di precedenti edizioni. Sono ammesse finalmente critiche e proteste, come non accadeva da tempo. L’assenza del presidente Trump, dall’inizio del suo mandato ostile all’accordo di Parigi, alfiere di un’ideologia che punisce la cooperazione e la scienza è stata salutata addirittura con sollievo. Lo spirito della conferenza si ispira al multilateralismo, da rilanciare - come sostiene Macron - vede nella presenza del premier inglese Starmer e del principe William la volontà di ricostruire il dialogo tra il Nord e il Sud del mondo, in un progetto definito «ambizioso». Ritrova i partner del diciassettesimo vertice del Brics, sempre in Basile, nel luglio scorso, cui avevano partecipato una trentina di paesi, comprese la Cina, la Russia e l’ultima arrivata, l’Indonesia. Riprende e rielabora i concetti della sostenibilità, dell’inclusione, delle compensazioni per i paesi più poveri che non si possono ridurre a spiccioli - a Baku erano stati stanziati solo 300 miliardi e non i 1.300 stabiliti - da accompagnare nella transizione energetica, e ancora, contro le diseguaglianze, nel segno dei diritti umani, costruendo nella sostanza un’alternativa all’economia del modello Trump e alla supremazia del dollaro, senza scendere in guerra. (Bisognerà spiegarlo al tycoon, che sta minacciando il Venezuela e che intende allargare il perimetro colonialista). Il presidente Lula, tra l’altro, porta una proposta interessante, come si accennava in testa all’articolo. Si tratta del TFFF (TropicalForestForeverFuns), un fondo di investimento per tutelare i grandi polmoni verdi del pianeta a cominciare dalla foresta amazzonica, per arrivare alle sconfinate distese verdi del Congo e dell’Indonesia. Sembra un sogno, anche se proprio il presidente Lula ha autorizzato trivellazioni nel cuore dell’Amazzonia, con il conseguente abbattimento di alberi. La deforestazione selvaggia del suo predecessore, il trumpiano Bolsonaro, appartiene però al passato. Il fondo ha un obiettivo ambizioso: 125 miliardi di dollari di raccolta in dieci anni. La partecipazione è pubblica e privata. I soldi andranno alle popolazioni custodi delle foreste e ai paesi che le ospitato. Il fondo, operativo da subito, genera una sorta di finanza climatica e popolare, che pare piaccia molto.
La sfida di Belém -si diceva- comprende anche la prova dell’alternativa possibile ai combustibili fossili. Dove guardare? Naturalmente, alla Cina. La super potenza asiatica ha stracciato i record di energia verde. Il 74% di tutti i progetti solari ed eolici vengono messi a punto e realizzati in Cina. La potenza installata corrisponde al doppio di quella dell’intero pianeta. L’impegno preso a Parigi da Xi Jinping e da Obama non è stato mai tradito. Da un problema climatico, il gigante asiatico ha creato opportunità di crescita. L’alternativa possibile è già in essere.
Alla sfida si aggiungevano le narrazioni, che disertano oramai i social e le piazze. Lo scrittore islandese, il simpatico Andri Magnason, autore del libro «Il tempo e l’acqua», vincitore del Premio Terzani, premiato anche a Dubai in occasione della Water Week 2022, cui ha partecipato l’Acquedotto Pugliese, in una piacevole conversazione con chi scrive, diceva: «Il cambiamento climatico muove problemi immensi, che non trovano le parole giuste per poter essere raccontati. Il mio sforzo è cercare ogni giorno quelle parole per ottenere l’ascolto». Le narrazioni fanno la differenza. Come sempre.