L'analisi
Toni dimessi e soliti annunci, ma «che barba, che noia» queste regionali pugliesi
Fair play da parte degli sfidanti, atteggiamento moderato e professorale, annunci, annunci, annunci...
«Che barba, che noia». Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, nei loro indimenticabili sketch, battibeccavano a letto diventando lo specchio della coppia media italiana degli anni ‘70. Ecco, il primo confronto tra i 4 candidati presidenti di Regione organizzato dalla Gazzetta è sembrato proprio quello sketch: fair play da parte degli sfidanti, atteggiamento moderato e professorale, annunci, annunci, annunci ma… che barba, che noia.
Sarà che l’esito elettorale in Puglia viene dato per scontato ormai da mesi, da quando proprio la Gazzetta lanciò sulle sue pagine un sondaggio che vedeva vincitore, senza se e senza ma, il centrosinistra con chiunque venisse lanciato nell’agone dal centrodestra. O sarà perché i primi a non sembrare particolarmente appassionati del cammino intrapreso sono proprio i candidati. Ma di certo questa campagna elettorale, a prescindere dall’esito finale che sarà e dall’impegno di chi prova a rivolgere domande agli sfidanti, verrà ricordata come una delle più piatte nella storia della regionali pugliesi.
Il centrosinistra, dopo un indistruttibile ventennio, ha ormai da tempo appeso al chiodo le scarpe con le suole consumate e indossato le pantofole: davanti al caminetto aspetta la data del traguardo sapendo di dover riempire solo qualche piazza qui e là, nel frattempo, per ricordare a tutti che si vota. «Sagre del programma» in Fiera, comizi elettorali che nascono come funghi.. insomma, le solite cose.
Il centrodestra, distrutto ormai da un ventennio, fa l’elenco delle lamentele (come la Mondaini con Vianello) su quello che non va in Puglia, ma di rado riesce ad indicare una soluzione. Anche qui: aperitivi e caffé, comizi qui e là, insomma il solito rito. I due outsider? Sono lì a cimentarsi, consapevoli che una soglia di sbarramento al 8% per le rispettive coalizioni, forse non garantirà loro nemmeno un seggio. Ma sai che c’è, almeno ne è valsa la pena fare le comparse ad un giro di set.
Andiamo con ordine. Antonio Decaro, l’ingegnere per eccellenza, sforna dati, progetti, soluzioni tecniche (alla sanità che non va, alla crisi idrica che non passa, ai trasporti che non funzionano, all’industria che precipita), forte della sua esperienza da sindaco e di quella da europarlamentare. Ma non scalda i cuori. La verve del sindaco più amato d’Italia che spopolava sui social con la sua inconfondibile «baresità» spinta dall’agenzia Proforma, ha lasciato il passo al tecnico in doppiopetto. Certo, meglio ricette concrete sulle cose da fare che grandi sogni irrealizzabili, ma un pizzico di idealismo agli elettori di centrosinistra è sempre piaciuto.
Ci riuscì Vendola, vent’anni fa, espugnando con la sua “rivoluzione gentile” il regno incontrastato di Fitto. E ci è riuscito Emiliano portando un’ondata di populismo nelle piazze dove la sinistra era abituata a raccogliere solo le «truppe cammellate». A questo giro, invece, i toni dimessi e la verve un po’ annoiata tradiscono un sentimento decisamente più “down”, quasi che quella salita sul palco di Bisceglie alla festa Dem per annunciare la candidatura alla Regione spinta dalla leader Schlein fosse, davvero, una coercizione. Ora ci penserà il rap “Puglia che spera” a followizzare un po’ di elettori, magari il figlio del giudice Occhiofino («Reverendo») riuscirà a dare un po’ di energia ad una campagna da mortorio dell’ex presidente Anci, dimagrito come uno spaventapasseri e triste come il cameriere della famiglia Addams.
Luigi Lobuono, imprenditore dinastico. Di lui, soprattutto i baresi, ricordano la sconfitta nel 2004, quando il centrodestra era ancora in grado di reggere all’urto pachidermico di Emiliano. Oggi, dopo tutte le batoste elettorali prese in 20 anni nella regione, quel ceto medio di cui la destra si faceva interprete all’epoca (imprenditori che si scontrano con la burocrazia, borghesia che rimane in coda negli ospedali, liberi professionisti che perdono appuntamenti sui treni-lumaca) si è dileguato. E dunque, essere solo il megafono delle lagnanze che girano tra Monte Sant’Angelo e Capo di Leuca, rischia di non sortire effetti. Lo sfogo della rabbia non basta se non è accompagnato da percorsi concreti e realizzabili o da sogni di riscatto: entrambi latitano nel racconto di Lobuono, la cui postura sembra più quella della signora della porta accanto o della chiacchierata nel bar (dove chiunque fa gli schemi della Nazionale di calcio o risolve l’imbuto della statale 16). Un racconto che tradisce, probabilmente, l’inesperienza della macchina amministrativa, che non è un’agile s.p.a.
Sabino Marco Mangano, l’eterno candidato. Non c’è tornata elettorale in cui non si presenti, un tempo in compagnia dei Cinque Stelle (che lo elessero consigliere comunale a Bari) e poi in beata solitudine, fuori dalle sigle di partito ma sorretto da movimenti, associazioni e chi più ne ha più ne metta, raggruppati in un’indistinta Alleanza civica dove compaiono pure i «Marziani per la Puglia». Mangano sembra l’emblema del grillismo: uno vale uno. Ovvero tutti possono dire la loro, anche senza capirne nulla, l’importante è esserci e perderle tutte. Chiuse le urne si sparisce, per tornare al prossimo giro su una navicella spaziale guidata da marziani.
Infine la professoressa, Ada Donno. Con lei, torna il simbolo della falce e martello che Cossutta provò a tenere in piedi fino alla fine mentre la Rifondazione di Bertinotti divorava il comunismo. E torna quel «potere al popolo» che è passato dai cossuttiani ai sovranisti come nemmeno Marco Rizzo è riuscito a fare. Piglio da docente, dialogo forbito, dall’alto della sua cattedra ha dispensato agli «studenti» pugliesi perle di saggezza sulla sanità e la mobilità di un mondo che non c’è stato e, probabilmente, non ci sarà mai. Alla faccia dell’anarchia (che in Salento ha radici ancora profonde), il mondo visto dalla sua politica sembra fatto di discepoli.
Fine. Andiamo a votare. Ma, si può dire? Che barba, che noia.