il commento
Da Tatarella a Meloni, il «mistero» pugliese della destra che crolla
Dopo aver percorso i territori del moderatismo democristiano e dell’egemonia progressista, approdiamo dalle parti del centrodestra
Dopo aver percorso i territori del moderatismo democristiano e dell’egemonia progressista, approdiamo dalle parti del centrodestra. Qui risiede la vera anomalia della storia che stiamo raccontando, il suo mistero: perché mai la destra pugliese, in una realtà che le è favorevole dal punto di vista identitario e sociale, da vent’anni a questa parte ha smarrito la chiave per l’accesso al governo della regione?
La risposta si trova incagliata in una concatenazione di cause che in Puglia hanno finito per logorare il campo conservatore. La prima, forse la più rilevante, risiede nella natura del berlusconismo. Il Cavaliere è stato, senza tema di smentita, una portentosa macchina di consenso. Era lui a vincere le competizioni. Quando si votava a livello nazionale, sui territori valeva una sola consegna: «Non disturbate il manovratore». Quel che i territori aggiungevano si riduceva a quantiténégligeable, per usare un’espressione cara a Berlusconi che lui utilizzava spesso in privato e qualche volta anche in pubblico. Sicché, soprattutto dopo la soppressione dei collegi uninominali, i Viceré che il Monarca designava localmente, erano incoraggiati a non cercare né qualità, né concorrenza. Perché mai dividere una torta se la spartizione non produce valore aggiunto? La «regola», ovviamente, si è imposta urbi et orbi e non solo in Puglia. Ma qui ha avuto più conseguenze.
Per caratteristiche geopolitiche (nessun’altra regione italiana si declina così tanto al plurale) e anche, almeno un po’, per come «la regola» è stata interpretata. La scomparsa di Tatarella, poi, ha peggiorato le cose. Con lui la destra pugliese perde l’uomo che sa accordare strumenti diversi in una sinfonia comune, trasformando le dissonanze in forza di governo. E ben presto, dopo la sua dipartita, si sarebbe scoperto che, quando si tratta di elezioni locali, il consenso nazionale non è sufficiente a sostituire del tutto gli insediamenti di una qualche qualità.
Sicché, in questo gioco di rimandi, le reti civiche, le strutture territoriali, le scuole di formazione, persino gran parte delle clientele che un tempo avevano costituito l’ossatura della «Balena bianca» si svuotavano e si sciolgono come neve al sole, sostituite da un modello nuovo, quello pseudo-carismatico che replica in scala ciò che Berlusconi è in grande.
Si capirà, a questo punto, perché il problema si trasforma in dramma quando dai collegi si passa alle liste bloccate. Pur all’interno del contesto «monarchico e anarchico» del centrodestra berlusconiano (il copy right appartiene, anche in questo caso, al leader), l’uninominale aveva creato alcuni legami di carne e sangue tra eletti e territori. Le liste bloccate del «Porcellum» recidono quei rapporti. I campanili perdono la voce. E a parlare restano solo i partiti romani e i loro Viceré. Questi ultimi, assai spesso, fanno assurgere il detto «meglio soli che male accompagnati» a regola di vita politica (inutile aggiungere che sono loro stessi a decidere sulla qualità scadente degli accompagnatori). Emblematica la tornata regionale del 2015, quando un centrodestra con una vittoria facile a portata di mano si presenta «sdoppiato», consentendo al campo progressista, ancora una volta, di dominare la scena.
Queste dinamiche sono state amplificate dai processi che hanno riguardato la classe dirigente del centrodestra. Questa non si è mai configurata come una realtà particolarmente ricca e, soprattutto, numerosa. Anche per questo, al suo interno, la cooptazione ha funzionato più dell’elezione. Sicché non è stato necessario risultare vincenti al livello locale per assurgere a un rango nazionale. E quando il centrodestra pugliese ha iniziato a perdere colpi, ciò non ha inciso in nessun modo sul destino nazionale dei suoi esponenti di spicco. È accaduto per necessità, ancor più che per lassismo. Perché la classe politica berlusconiana non poteva fare a meno di loro. La frattura tra nazionale e locale si è come sublimata. Non serviva più conquistare la regione per essere promossi a Roma. Era più importante controllare la realtà interna, anche al fine di evitare scomode concorrenze. In molte regioni la transizione dal «berlusconismo» al «melonismo» ha segnato una seppur parziale rottura dei processi di selezione della classe dirigente. Le «forme partito» egemoni nelle due fasi, infatti, non possono ritenersi identiche. Questa non è la sede per esprimere su di esse giudizi valutativi. Quel che, invece, si deve notare è come in Puglia la discontinuità sia risultata minore che in altri luoghi. Forse, anche perché più che per altre realtà i «quadri» sono stati chiamati a operare «altrove». Prendiamo il caso di Raffaele Fitto. Il golden boy di un tempo non ha certo smarrito il suo insediamento elettorale. Ma è un fatto che Bruxelles dal Salento sia più distante di Roma. Si vive in un’altra dimensione. Si ritorna meno a casa. E si rischia, così, di veder amplificate le disfunzionalità di un modello, invece dei suoi aspetti positivi. Il discorso potrebbe replicarsi, a differenti gradi di intensità, per Mantovano a Palazzo Chigi, Sisto al Ministero di Giustizia, Gemmato a quello della Salute.
A livello regionale, insomma, vent’anni dopo, il centrodestra non sembra ancora in grado di varare uno schema di gioco alternativo rispetto a quello che lo ha visto soccombere nel passato. Ci appare vittima di due tentazioni tra loro, in realtà, collegate più di quanto si possa ritenere: attendere i guai giudiziari degli avversari, che, però, in Puglia sono sempre e da sempre edulcorati; confidare nel miracolo che Dodò La Capria avrebbe definito «la grande occasione». Questa, però, con pervicacia si rifiuta di arrivare. Più che del destino cinico e baro è colpa dei propri avversari. Il «modello Emiliano», lo si può anche ritenere brutto, sporco e cattivo. E, almeno in parte, certamente lo è. A suo modo, però, incarna un modello di «società aperta»: coalizioni ampie, reti civiche ramificate, clientele diffuse, un consenso che ad ogni stagione si rinnova come i cicli della natura. Sempre a suo modo, comunica con il mondo democristiano e - udite, udite - persino con l’universo tatarelliano più di quanto non faccia l’attuale centrodestra. Questo, infatti, sembra essersi confinato in un mondo chiuso d’impronta neofeudale - fatto di vassalli, valvassori e valvassini - dal quale fa fatica a fuoruscire. Non si tratta di un destino irreversibile, ma tempus fugit. Non per questo si può pretendere che un nodo gordiano in cui si stringono inestricabilmente quattro radici profonde - i residui del berlusconismo, quelli della scomparsa di Pinuccio Tatarella, gli effetti delle leggi elettorali e la proiezione costante delle leadership verso Roma - si possa sciogliere con un colpo di spada. Esso ha bisogno di tempo per essere dipanato. Se ci si vuole riuscire, però, un giorno bisogna pur iniziare l’intrapresa.
[Terza puntata, fine]