L'analisi

L’omicidio di Charlie Kirk negli Usa e le stragi di giornalisti in Medio Oriente, crimini efferati ma molto differenti

Carmen Lasorella

Abbiamo raccontato i totalitarismi, il fondamentalismo e il terrorismo, imparando che non arrivano all’improvviso

Il 10 settembre 2025. Nel campus dell’Università dello Utah, un proiettile ha ucciso Charlie Kirk, attivista pro Trump nella strategia MAGA (Make America Great Again) con 20 milioni di contatti sulle piattaforme social (Instagram, Tiktok, X).

Nella stessa data, a Sana’a, nello Yemen, le bombe israeliane colpivano le redazioni di due giornali: il «26 Settembre», affiliato agli Huthi e il quotidiano «Yemen». Bilancio: 35 giornalisti uccisi e un bambino. Per il Comitato Internazionale che vigila sulla protezione della Stampa (CPJ), si è trattato del «più mortale attacco contro i reporter degli ultimi 16 anni». Per Israele, «un obiettivo militare, contro il terrorismo psicologico». Due crimini in mondi e culture diverse, nella stessa data e contro la stessa libertà di espressione, a tredicimila chilometri di distanza e con dieci ore di fuso di differenza.

Azzardato il collegamento? Perché? Se, come nel caso di Kirk, passano doverosamente in secondo piano i contenuti della sua comunicazione (xenofoba, razzista, contro i diritti delle donne, pro armi, nel segno della violenza), nel primato del valore della vita e della libertà, che comprende quella di espressione; l’eccidio yemenita non si può liquidare come «operazione militare, contro il terrorismo psicologico», chiudendo la partita, senza muovere i commenti. Il CPJ parla di «una strategia contro operatori dei media in tutto il Medioriente, considerando che a Gaza ufficialmente sono stati uccisi 247 giornalisti in meno di due anni, nel disinteresse dei governi e delle opinioni pubbliche».

A Glendale, in Arizona, il presidente Trump e metà della sua amministrazione hanno celebrato il «martire Kirk» in uno stadio di 100 mila persone con misure di sicurezza pari a quelle del Super Bowl, la finale del campionato di calcio della National Football League. Le immagini hanno fatto il giro del mondo, precedute da retorica e minacce internazionali (ignoti i particolari, dell’evento già che il fatto è successivo alla scrittura).

Sana’a ha mostrato solo le sue macerie. Non servono le spallucce o i sorrisetti dinanzi alla scontata differenza tra i ricchi e forti e i poveri. Stiamo accettando la strumentalizzazione sempre più aggressiva, che condiziona le opinioni pubbliche e che aggiunge inquietudine all’inquietudine dinanzi al caos in corso alle più diverse latitudini. La pace appare lontanissima sia in Medioriente, sia in Ucraina, continuando a ignorare i fronti africani - uno per tutti il Sudan, che conta decine di migliaia di morti e milioni di sfollati - ma il livello dell’odio sale ogni giorno e si respira.

In questi primi nove mesi dell’era Trump, la bestia prolifica degli hate speech ha generato politiche muscolari, dettate dagli interessi economici, puntando sulla denigrazione, la deumanizzazione e la bugia. Nel mito greco di Pandora, la prima donna mortale plasmata dagli dei, che aveva ricevuto i doni più belli che un essere umano potesse avere, ma anche un vaso stregato che non doveva aprire, si attribuiva a una donna e alla sua curiosità la colpa dei mali che avrebbero invaso il mondo. Quel vaso, però, non è mai stato nelle mani di Pandora ed è finito di nuovo in frantumi, come sembra in frantumi l’umanità. Siamo arrivati al paradosso, che chi governa si lamenta dell’odio, mentre sguinzaglia le mute dei propri cani ammaestrati per azzannare chi esercita il diritto di critica, che con l’odio davvero non ha a che fare.

Invece, le parole si scagliano come pallottole, oltre i contenuti. Gli avversari- lo diventa chiunque esprima un parere contrario al credo dominante - vanno demoliti, a prescindere. Nell’America di Trump, si licenziano i giornalisti di punta e si chiudono i programmi tv, che discutono della linea del presidente, mettendo nel mirino anche quei quotidiani che hanno fatto la storia, come il Whashington Post o il Wall Street Journal. I social sono abusati, nel totale controllo dei tycoons, schierati con il tycoon al potere. E se nei giorni scorsi il premier britannico Starmer, dopo il regale benvenuto a Trump, ha comunque difeso il diritto/dovere dell’informazione libera di cui il Regno Unito può menar vanto, ad altre latitudini europee, tra cui la nostra, dopo il caso Ungheria, si consuma un’invadenza costante e pervasiva nel campo dell’informazione, a cominciare da quella del servizio pubblico.

Abbiamo raccontato i totalitarismi, il fondamentalismo e il terrorismo, imparando che non arrivano all’improvviso. La narrazione dell’ingiustizia e la libertà di opinione non sono di parte, perché appartengono al dovere di chi declina l’informazione. Occuparsi dei più deboli non è carità cristiana, così come è normale informare sui diritti sociali a rischio nel proprio paesi e ragionare del futuro, che condivideremo. Si può e si deve raccontare l’orrore in cui Israele ha precipitato Gaza e la Cisgiordania, senza essere tacciati di antisemitismo. Dobbiamo continuare a rimproverare all’Europa e all’Italia di non avere interrotto le forniture commerciali, nè di aver sospeso l’accordo di associazione, che prevede, tra le altre cose, una collaborazione dual use, ovvero civile e militare, perché è semplicemente inaccettabile. Dopo il diciannovesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, che ha intensificato la sua guerra di aggressione in Ucraina, mentre gli americani sono distratti e indifferenti, non possiamo considerare sufficienti le misure di censura contro i ministri oltranzisti di Israele: sarebbe l’assoluzione degli altri. Sono troppi gli innocenti uccisi, di cui si è perso il conto, tra loro, i poveri ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, lasciati morire, mentre si completa la pulizia etnica del popolo palestinese, sacrificato ad un progetto coloniale e agli affari immobiliari. Non basta invocare la giustizia della storia, che con i suoi tempi arriverà. L’ ultima immagine, scivolata sugli schermi, è uno strattone per l’umanità. L’obiettivo segue due bambini sulla spiaggia di Gaza. Uno è piccolo, scalzo, coperto di stracci, il passo stentato; l’altro, piccolissimo, è sulle sue spalle deboli, ha gli occhi spalancati. Piangono disperati entrambi. Sono in cammino verso il nulla.

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