la riflessione

Siamo all’inizio o alla fine? L’uomo sospeso nell’età dell’incertezza

chicca maralfa

L’incertezza non è più uno scarto tra due certezze, ma una condizione permanente. La respiriamo ogni giorno, negli scenari internazionali che cambiano in poche ore

«IIn times of tears, get sunk». Nelle lacrime, affonda. Non reagire, non nuotare, non cercare di restare a galla, vai a fondo. È un verso di Matt Berninger, tratto da Times of Difficulty, canzone centrale del suo ultimo album, «Get Sunk». Non parla solo di dolore, ma di resa: quella resa sfinita che diventa l’unico modo possibile per sopravvivere in un presente che non ha più sponde. In un’epoca in cui siamo costantemente sollecitati a produrre, decidere, orientarci, quella frase suona come l’epigrafe del nostro tempo: affondare non come fallimento, ma come difesa.

L’incertezza non è più uno scarto tra due certezze, ma una condizione permanente. La respiriamo ogni giorno, negli scenari internazionali che cambiano in poche ore, nei mercati volatili, nei conflitti che ridisegnano il mondo in diretta streaming. Nulla si può prevedere, ancora meno controllare. L’economia ondeggia e ha il battito irregolare: guerre, dazi, monete nervose, crisi che si alternano come stagioni premature. Ogni previsione dura quanto un algoritmo.

Ma è nella sfera intima che l’incertezza diventa più radicale. Nelle relazioni, nei sentimenti, nei corpi. Ogni gesto è esposto, ogni parola condivisibile, ogni momento filtrato da una lente digitale. La realtà si è piegata all’estetica della rappresentazione, e noi con lei. Lo dimostra con crudezza il caso accaduto di recente a un concerto dei Coldplay: Andy Byron, CEO della società americana Astronomer, viene inquadrato dalla kiss cam mentre abbraccia una collega. Entrambi si nascondono d’istinto. Una reazione che la battuta del cantante Chris Martin amplifica, rivelando al pubblico la probabilità che fra i due ci possa essere una relazione extraconiugale. L’immagine diventa virale e lo scandalo immediato. In meno di 48 ore, Byron si dimette. Un gesto d’intimità esposto, giudicato, trasformato in disonore. Un abbraccio come condanna. L’incertezza, qui, non cancella la questione etica - il contesto è fragile - ma mostra quanto sia difficile separare la sfera personale da quella pubblica. Non conta più cosa si è fatto, ma come lo si è visto.

La psicanalisi lo dice da tempo: il soggetto contemporaneo è sotto esposizione costante. Non c’è spazio per il desiderio autentico, solo una continua verifica di sé nello sguardo altrui. Il risultato è ansia emotiva, panico davanti all’impossibilità di scegliere, bisogno d’approvazione. Il sé non riesce più a fissarsi. Si disgrega nella richiesta continua di visibilità. Anche la filosofia ha tentato di raccontare questa deriva. Bauman parlava di modernità liquida, ma oggi la realtà è gassosa. Franco «Bifo» Berardi la chiama «psicopatia del presente»: un’epidemia percettiva che ci impedisce di pensare il futuro. Il tempo è sostituito dalla reazione. L’attesa è patologica. L’incertezza, intollerabile.

Dalla letteratura ci giunge più di una traccia del clima in cui viviamo. In Il senso della fine del mondo (Feltrinelli, 2024), Paolo Di Paolo descrive un presente impastato di presagi. La sensazione costante è che qualcosa stia per crollare - il clima, la politica, la parola stessa - ma nessuno sa più cosa esattamente, né se quel crollo sia già avvenuto. Il futuro resta fuori campo, come una minaccia sussurrata che nessuno osa ascoltare fino in fondo. In Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022) Maria Grazia Calandrone racconta l’origine come vuoto e desiderio. In E poi saremo salvi (Mondadori, 2021), Alessandra Carati narra un esilio interiore senza patria. Anche L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli,2025), vincitore dello Strega 2025, parla dell’incertezza come spazio esistenziale: il protagonista recide ogni legame d’origine nel tentativo di rifondarsi. Le radici non sono più punti fermi, ma nebbie da attraversare.

L’incertezza è questo: l’impossibilità di sapere se siamo all’inizio o alla fine. Se stiamo tornando o fuggendo. Forse l’unico gesto possibile è proprio quello suggerito da Berninger: affondare. Non per scomparire, ma per smettere di galleggiare a tutti i costi. Restare. Ascoltare. Non sapere. Forse l’incertezza non è la malattia del nostro tempo. Ma una nuova unità di misura, il modo in cui ci viene chiesto, ora, di imparare a vivere.

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