L'analisi

Ma «El Nost Milan» non smette mai di stupire noi pugliesi

Francesco Nicola Maria Petricone

Da sempre abituati al vortice anda e rianda che ti stritola, molto diverso da qui. Da sempre, sessanta anni che è così Milano

Se ci fosse il mare sarebbe una piccola Bari. Milano, da sempre meta di tanti di noi pugliesi. Che quando ci arriviamo, imbastardiamo il nostro accento, ma non lo perdiam del tutto. Da sempre abituati al vortice anda e rianda che ti stritola, molto diverso da qui. Da sempre, sessanta anni che è così Milano. Prima le stragi degli anni di piombo, poi la delinquenza comune con il Bel Renè, Vallanzasca, e le prime inchieste alla politica degli anni Ottanta. Su, fino alla fine di quegli Ottanta, primi Novanta, con la Duomo Connection, l’inchiesta di Ilda Bocassini e Giovanni Falcone sull’infiltrazione della mafia a Milano. E di nuovo giù per le ripide e tortuose strade affatto anfose di Tangentopoli. Regia di Borrelli, starring Tonino Di Pietro. Sempre stessa location. Alla regione Lombardia, che allora si scriveva con la minuscola e l’articolo determinativo. Regione Lombardia, oggi. Con il suo bel palazzo, il quartiere elegante, i grattacieli, quei giardini verticali. E il Comune di Milano.

Passano gli anni, i decenni, ma «el nost Milan», come siamo ormai abituati a chiamarla anche noi pugliesi, orgogliosi dei panzerotti di Luini, meglio dell’Asso di spade a Ostuni, non smette mai di stupirci. Con quelle sue inchieste che da via Freguglia arrivano dritte a Palazzo Lombardia oggi, ieri Palazzo Chigi, Montecitorio, Madama, passando per San Vittore, Opera. Domani chi sa. Perché così è l’intrapresa meneghina. Fatta di decisori politici, a 360 gradi, non solo stipati tra gli scranni degli emicicli romani, ma spesso, sempre più, al banco dell’accusa e della corte del Palazzo di Giustizia. Come imparano le nostre studentesse e i nostri studenti quando raccontiamo loro della theory of justice di John Rawls. E non si stupiscono più, se giudici, costituzionali e ordinari, pubblici amministratori, civil servant svolgono nel loro lavoro una funzione anche politica. Nel senso etimologico e più nobile del termine, aristotelico. Sanno, quelle e quei giovani aspiranti giurisprudenti, scienziati politici, filosofi, che anche i magistrati con le loro decisioni, quelle scelte, le indagini, perseguono l’interesse pubblico. Nel rispetto della legge, che applicano, interpretano. In democrazia, come negli stati totalitari. Più o meno indipendenti dal potere legislativo che in alcuni ordinamenti li nomina. Più o meno a quel potere contrapposti. Giudici che ogni volta raccolgono l’ammirazione, lo sdegno, l’attacco o la difesa di una parte o l’altra. Politica.

Prosegue così, anche stavolta, tra strade polverose, la nuova indagine milanese che scuote le fondamenta di Palazzo Marino, più dell’insegna delle Generali caduta dalla torre Hadid a City Life qualche giorno fa. Ed è ancora lì che penzola, quella insegna, mentre la osservi, correndo di fretta all’uscita dell’ennesima fermata della metropolitana, nell’ennesima linea gialla, rossa, blu, indaco, verde. Tante, che ormai ti ci perdi. Sfrecciano da soli i convogli sui binari, senza uno straccio di autista con cui commentare le scelte di Decaro o Emiliano. «Molto diverso da qui, da noi» pensi, mentre con la ferrotramviaria vai dalla stazione di Bari a San Paolo, passando per l’aeroporto. Ma almeno qui abbiamo il mare. Al contrario di Milano. Molto meglio. O no?

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