L'analisi

Sì, difesa europea ma da cosa ci proteggeremo?

Rosario A. Polizzi e Camilla Sodano

Organizzare una difesa europea : alea iacta est! Ma da chi e da che cosa dobbiamo difenderci? Non c’è dubbio che viviamo un tempo in cui sono saltate molte di quelle regole che, nel bene e nel male, erano la Struttura della società del Dopoguerra

Organizzare una difesa europea : alea iacta est! Ma da chi e da che cosa dobbiamo difenderci? Non c’è dubbio che viviamo un tempo in cui sono saltate molte di quelle regole che, nel bene e nel male, erano la Struttura della società del Dopoguerra.

Ogni nazione europea aveva consolidato la propria realtà territoriale, senza la necessità di una difesa comune.

Il progetto era perfetto: l’ombrello a stelle e strisce garantiva la continuità di questa magnifica costruzione. Quel percorso, però, a un certo punto si è allentato. E ora l’Europa appare proprio «serva, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!». Ora più che mai è necessario recuperare tutto il patrimonio di cultura, storia, sviluppo sociale, ardore democratico — cioè i Valori del Vecchio Continente — e rapidamente ripensare a come proteggerli dal vento politico che soffia in Occidente?

Non sarebbe male tenerli sempre presente e validarne gli effetti da nord a sud, da est a ovest? Da analisi di questo tipo discende poi la necessità della difesa comune.

Crisi internazionali, conflitti ai confini dell’Unione e una crescente percezione di insicurezza hanno spinto molti Paesi membri a ripensare un progetto di cooperazione militare.

Tuttavia, se da un lato l’obiettivo di rafforzare la sicurezza collettiva appare condivisibile, dall’altro nasce una domanda inevitabile: da chi e da che cosa dobbiamo difenderci? Dov’è la linea del fronte?

La guerra in Ucraina ha rotto l’incantesimo: i conflitti armati tradizionali non sono più solo un ricordo del passato, ma una realtà che può bussare alle porte dell’Europa da un momento all’altro. Certamente si parla sempre meno di confini e soldati marcianti: viviamo in un’epoca in cui attacchi informatici, disinformazione e guerre ibride possono colpire senza preavviso. Niente più «la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli Ambasciatori di….».

La pandemia ci ha insegnato che non esistono più confini fisici assoluti e lo stato dell’arte della terapia e degli studi clinici volavano da un laboratorio all’altro e la sicurezza passava attraverso la protezione delle reti digitali e la resilienza delle istituzioni democratiche.

E allora sparite le trincee e confermata la sostanziale inadeguatezza delle tradizionali forze di terra, di mare e di aria, diventa saggio far riemergere una diplomazia forte, capace di prevenire i conflitti, costruire alleanze, mantenere viva la fiducia tra i popoli. In poche parole, un ritorno all’Intelligenza Umana, destinata a tessere quella rete di contatti più o meno segreti, forse lenti a procedere, ma portatori di sentiment più produttivi e forse anche di risultati più stabili. Una difesa comune può e deve andare di pari passo con una politica estera all’altezza, con la capacità di parlare — probabilmente — una voce sola ed un solo linguaggio nel mondo. Vale sempre coltivare ciò che si vuole difendere: la cultura, la democrazia, la libertà di espressione, il dialogo. Non c’è dubbio che il problema sia anche che la ragione non appaia sempre più alienata.

Non c’è nulla di più folle della coerenza astratta dei concetti: le ideologie della prima metà del secolo ne sono il prodotto, in un’epoca dominata da un razionalismo arido e sconnesso dal contatto con il mondo, delinea una dittatura dell’emisfero sinistro sganciato dal destro.

È quindi doveroso ritrovare l’uso del cervello-mente in modo saggio e integrato. Costruire dialoghi è la prima regola del gioco per proteggere e far crescere quel patrimonio che abbiamo ereditato, e trasmetterlo più forte a noi stessi e alle generazioni future. Ma non dimentichiamo mai che una difesa comune, senza un progetto comune di civiltà, rimane solo un guscio vuoto.

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