il commento

Questa estate inumana e la necessità di prendere coscienza

Enrica Simonetti

Quella che stiamo vivendo rischia di essere l’estate «inumana» in cui (assurdamente) abbiamo preso coscienza del fatto che l’umanità alla fine è un concetto precario, come noi.

Aggettivi per definire un’estate: allegra, languida, attesa, costosa, infuocata, fuggevole… e mille altri. Ma quella che stiamo vivendo, purtroppo, rischia di essere l’estate «inumana», quella in cui (assurdamente) abbiamo preso coscienza del fatto che l’umanità alla fine è un concetto precario, come noi. Facciamo un po’ di scrolling: e cioè chini - come sempre - sul cellulare, muoviamo il nostro sacro pollice, parte del corpo ormai dedicata allo «sport» di scorrere dal basso verso l'alto sullo schermo ogni nuova notizia, ogni storia social.

Tragedie e barzellette si mischiano a ritmo incessante. Leggiamo i titoli, guardiamo un video. Ridiamo di chi si spaventa per l’allarme antincendio sull’aereo e rimane ferito. Clicchiamo sulle sciagure: inondazioni, sparatorie, aggressioni verbali. L’estate inumana è sotto i nostri occhi, mentre ci lamentiamo del caldo. La «star» del gruppo sembra Donald Trump, l’eroe-presidente che ha messo i coccodrilli affamati nelle acque dell’isola-prigione di Alcatraz; poi ci sono le bombe, i numeri di morti in Iran, no sono di più a Gaza, no contiamo quelli dell’Ucraina. Le diplomazie lavorano a colpi anche di buffet, tra viaggi, telefonate scottanti, misteri e acquisti lobbistici di armi.

Nell’estate inumana, siamo furenti: tutti in coda per una bibita fresca, per un taxi che non arriva mai, per l’overtourism. Sì, ovviamente sono problemi e attendere non piace a nessuno. In qualche parte del mondo, nemmeno tanto lontano da noi, a Gaza, c’è chi muore dilaniato da una bomba mentre fa la fila per il cibo. Una roulette russa: muoiono gli affamati o muore chi quel cibo lo porta. Altro scroll, ancora su e giù sul nostro cellulare: aiuto, si scalda anch’esso, ormai brucia come tutto ciò che abbiamo intorno, a 42 gradi pieni a mezzogiorno. E, guarda un po’, fa caldo pure nelle carceri che sbrigativamente vengono definite «affollate», anche se sono dei veri e propri inferni, soprattutto al Sud, dove da Foggia a Bari e negli altri istituti gli «ospiti» sono il doppio, il triplo di quelli previsti e si trovano tutto il giorno accalcati, mentre le guardie penitenziarie sono la metà del numero necessario.

Non si respira, non si vive: come nelle nostre campagne, in cui il caporalato continua, sotto un sole pugliese che per molti altri è abbronzatura e beauty farm. Suda mentre parla anche il marito di Paola Clemente, la donna morta nell’estate 2015 mentre lavorava, affaticata, sotto un tendone d’uva ad Andria: «Per noi non c’è giustizia, nessuno ha pagato». Anche le grandi multinazionali dei rider promettono venti centesimi a consegna in più per lo stress da caldo e poi non li pagano.

Guardate le campagne in questi giorni: la terra appare arsa, divorata dall’afa, prosciugata dalla siccità, che alla fine è un po’ come il monstre dell’estate (salvo che ai negazionisti del clima). E si assiste quasi a un fenomeno di camaleontismo: il mondo si surriscalda e si secca, così come parallelamente s’inaridiscono gli animi, ormai gonfi di rabbia in una confusione globale in cui la canicola universale sembra poter sciogliere gli ideali, i principi umani, le attese e le speranze, quelle linfe di vita capaci di dissetarci. Impanicati, furiosi, pronti a scattare selfie in ogni dove – persino distruggendo un’opera d’arte o finendo uccisi da un orso – abbiamo cambiato la nostra essenza, o per lo meno, lo scroll sul telefono ci fa sentire così, infelicemente trasfigurati. Perché con il volto chino in quel grande mondo della rete (che invece è un mondo piccolo-piccolo) non ci accorgiamo più di nulla, abbiamo la pellaccia dura e la nostra insensibilità passa da padri/madri/ in figli/e, attraversa le generazioni e forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Eppure c’è molto altro, c’è tutto quello che non fa parte dello scroll e che invece ci appartiene: siamo noi a poter mettere in crisi l’estate «inumana», che sì è potente, però non imbattibile.

Perché non è nuova, non è assoluta e si può combattere: è impossibile dimenticarsi di essere umani. Uno dei classici da rileggere in questo periodo è quel sublime romanzo di Cesare Pavese La bella estate (del lontano 1949!). A dispetto del titolo, non è solo di stagione meteo che si parla, ma di una stagione più profonda, quella dell’anima. C’è la giovane Ginia che in quella estate dei sentimenti entra nel mondo adulto, vive le delusioni, le paure e le sfide di quella fase della vita. Pensate, Pavese con questo romanzo vinse il Premio Strega 1950 e in realtà fu il suo primo grande riconoscimento. L’atmosfera nel romanzo è inquieta: c’è la ricostruzione del dopoguerra e la precarietà dell’esistenza, ma i personaggi pian pianino sembrano perdere malinconia, perché si rendono conto che devono guardare il mondo con occhi nuovi, che non sono più di ragazzi ma adulti. Che quell’estate era finita e non sarebbe tornata più... così come non può continuare la nostra arrendevolezza, il nostro tirar su le spalle infingardo, lo scroll distratto sul telefono: con quello che accade intorno a noi, non possiamo più rifugiarci nell’età dell’innocenza, nella perseveranza dell’errore. Nell’estate «inumana» non possiamo sbagliare: cittadini disinformati e indifferenti fanno molto comodo. Ad ogni governo del mondo.

Privacy Policy Cookie Policy