la riflessione
Vincono le «ragioni del cuore» ma i popoli non si aiutano con scelte euforiche e raffazzonate
La recente posizione del Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, di interrompere relazioni di «qualsiasi natura» nei confronti di Israele, mostra la consistenza di una scelta in sé singolare e raffazzonata
La recente posizione del Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, di interrompere relazioni di «qualsiasi natura» nei confronti di Israele, mostra la consistenza di una scelta in sé singolare e raffazzonata. Singolare poiché non essendo la Puglia uno Stato in grado di stabilire relazioni diplomatiche con un altro Stato, quale è Israele, suona sconsiderato e appare peculiarmente stravagante assumersi, unilateralmente, decisioni di interruzione dei rapporti commerciali, a carattere culturale e politico, nonché di soccorso umanitario, nei confronti dello Stato di Israele; ma si tratta anche di una scelta raffazzonata, perché dettata da una inquietante fretta, emotivamente poi destinata a sperdersi nel cumulo di quelle caratteristiche decisioni politiche, sebbene suggestive, volte tuttavia, nel loro grottesco profilarsi, a essere del tutto inutili e inefficaci.
Infatti se si desidera che una delle due parti del conflitto scatenato con l’assalto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, nei confronti di popolazioni israeliane, di giovani inermi ebrei e di pacifici lavoratori, non certo contro gruppi di insediamento militare, rifletta su un eccesso di uso della forza militare e riconsideri la sproporzione nella reazione dovuta al vile attacco terroristico subito, non avverrà certo grazie alla sospensione del dialogo, rovesciando gli avvenimenti e contrastando la possibilità del confronto con chi si ritiene in errore fra le due parti in guerra, cioè Israele.
Ciò non farà altro che provocare un maggior allontanamento proprio dello Stato israeliano da un negoziato di pace, anzi incrementerà una recrudescenza dell’azione dell’esercito israeliano contro i gruppi terroristici di Hamas. Infatti si può giungere a stabilire accordi di pace su un territorio, che la popolazione palestinese e il popolo israeliano devono condividere, fra zone di insediamento limitrofe e interconnesse, solo avvicinando ognuna delle parti, mai allontanando una a preferenza dell’altra, mai isolando nei suoi crimini una vittimizzando l’altra per ottenere, infine, un subdolo vantaggio interno, forse personale, di mediocre ottimizzazione di prossimi profitti elettorali, volti a massimizzare il consenso politico nello schieramento partitico di cui si fa parte.
Tutto questo insieme di eventi e di decisioni, non soppesate, dettate dall’euforia del momento per ottenere consensi tanto immediati quanto superflui e passeggeri, mostrano innanzitutto un utilizzo a fini personalistici di una tragedia collettiva che coinvolge da oltre settant’anni due popoli e popolazioni, evidenziando la grettezza di una scelta politica che non sa andare al cuore delle situazioni, scrutando nella verità degli eventi.
Il filosofo francese Blaise Pascal è noto anche per una sua celebre riflessione: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende». Se l’azione politica esterna alle parti in conflitto non sa percepire la profonda lacerazione insita nei palestinesi e negli israeliani, lacerazione dovuta anche ad errori europei di opportunismo nazionalistico, nonché a superficialità e miopia politiche, non potrà neppure comprendere cosa possa essere raggiungere il cuore di un palestinese che ha perso la sua casa o di un israeliano a cui è stata rapita la figlia, o stuprata e poi uccisa durante l’assalto di Hamas, contro cui non ci sono state prese di posizione di condanna, così dirette ed energiche, come quelle intraprese attualmente contro Israele.
Agire per la pace non è esacerbare gli scontri, stigmatizzando una sola delle parti; non è emarginare una delle parti in conflitto, rigettandone la presenza o disconoscendone il profondo dolore inferto dal terrorismo di Hamas, che non è Palestina né rappresenta il popolo palestinese, ma semmai lo opprime e lo tiranneggia, reclutando sue milizie fra i giovani palestinesi che non vedono altro sbocco alla loro vita e al loro futuro se non quello di combattere Israele, ideologicamente e militarmente: la pace, che è comprendere, dialogare, conoscere, scrutare negli eventi senza posizioni paradigmatiche, non la si costruisce con una razionalità, sprezzante, che ammutolisce la storia e acuisce l’oblio della sofferenza dei popoli, rifiutandosi di dialogare proprio con quel governo israeliano attuale che sta causando una ulteriore naqba (catastrofe) sul popolo palestinese, ma è scandagliare il cuore ferito dei popoli. Tale volontà, però, significa riconoscere i popoli, scoprirli, saperne di più della loro rispettiva identità culturale e storico-territoriale, aiutarli soprattutto a dialogare fra loro sotto uno sguardo, non politico, cioè sinistro, fatto di un cuore di tenebre, ma sotto una luce di conversione che conduca entrambi, palestinesi e israeliani, a rivelarsi le ragioni dei loro cuori dilaniati anche da menzogne. Cuori che la ragione politica non comprende nella sua limitatezza culturale, nel suo grigiore dialettico di ambizioni interne e nella sua incapacità a compenetrarsi nel dolore umano, riducendo tutto meschinamente a una contesa fra avversari, a una sfida fra buoni e cattivi, dove un esterno decide chi sia il migliore fra le parti; incrementando così le sorti della guerra e le sue azioni, cogliendo per opportunismo da una vicenda storica, di lamento e di esperienza del dolore fra due popoli e popolazioni, la possibilità di vantaggi interni e l’opportunità che un terzo, europeo, indichi chi sia il carnefice, sperando così di mettere fine al conflitto chiudendosi a una delle parti, invece che aprirsi a tutti, così dando voce, paradossalmente, proprio all’adagio latino per cui, agendo in tal modo, tertium non datur, sed melius silere est quam inconsulte loqui.