il commento
Ma la questione Taranto va oltre l’acciaio e diventa geopolitica
Taranto assurge a esempio paradigmatico dei limiti di interventi calati dall’alto, che non hanno saputo tener conto del capitale sociale, della vocazione dei territori, del contesto geo-politico
Negli ultimi cinquantanni, Taranto ha perso più di cinquantamila abitanti. Il tasso di disoccupazione è cinque punti sopra la media nazionale, quello di occupazione molti punti sotto. Il Rapporto sul benessere equo e sostenibile dell’Istat la vede agli ultimi posti delle province meridionali. A cavallo tra due secoli, Taranto e l’ex Ilva sono diventati uno dei simboli della carenza di una strategia nazionale per il Sud.
Fin dagli albori dell’intervento pubblico, infatti, a mancare è stata una visione in grado di creare un indotto diversificato intorno al più grande polo siderurgico europeo. Taranto, per questo, assurge a esempio paradigmatico dei limiti di interventi calati dall’alto, che non hanno saputo tener conto del capitale sociale, della vocazione dei territori, del contesto geo-politico.
Oggi, però, le opportunità non mancano: dalla cantieristica all’eolico offshore. Ma le imprese dell’indotto danneggiate dal calo della produzione dell’acciaio chiedono ancora ristori. E mentre si attende una verità giudiziaria definitiva sulle responsabilità politiche per il presunto disastro ambientale, l’altalena dei capitali -prima pubblici, poi privati, ora forse di nuovo pubblici - si lascia dietro una storia infinita di rinvii, ricorsi e commissariamenti.
D’altra parte, la questione non è più «acciaio sì», «acciaio no»; industrialismo contro ambientalismo, ecologisti contro sovranisti.
Il tema vero è tenere agganciata Taranto al Meridione. Perché dopo la pandemia il Mezzogiorno è tornato a crescere. Sotto molti aspetti, può giocare un ruolo dominante nel Mediterraneo. Ma la produzione di acciaio europea nell’ultimo decennio è calata. Quella del Nord-Africa, invece, aumenta. Da fornitori, stiamo diventando clienti di Egitto o Algeria. Eppure, per trasformare, distribuire e rivendere l’acciaio, i Paesi della «Sponda Sud» devono passare da noi. Dai porti e dagli snodi ferroviari del Sud, dalla logistica meridionale. Taranto, quindi, può diventare l’hub Mediterraneo dell’acciaio «green» e della sua filiera. O lasceremo che siano Francia o Spagna a farlo? Mentre Trump rialza i dazi?
Lo Stato deve fare la sua parte. Assicurando la continuità produttiva dell’ex Ilva. La «road map» del Governo per il restart produttivo e la decarbonizzazione sembra realistica. Ma se si vogliono veramente evitare gli errori del passato, servono anche soluzioni di mercato attraenti per i capitali stranieri. Un’idea potrebbe essere la «No Tax Area», proposta da più parti negli ultimi anni, per attrarre investimenti e compensare le incertezze di chi fa impresa. I capitali privati non arriveranno o continueranno ad andarsene se l’unica cosa che sentono sul collo è l’alito di una minaccia giudiziaria retroattiva.
Insomma, c’è bisogno di una visione industriale forte e condivisa con l’Europa, fondata sulla qualità dell’acciaio per automotive, infrastrutture e difesa. Ma questa visione non può essere disgiunta dalla proiezione del Sud nel Mediterraneo. Il Mezzogiorno deve sfruttare la dimensione economica per ricavarsi un ruolo geopolitico. E la «Città dei mari» resta uno snodo strategico per la Difesa. Non solo la nostra. In un tempo di conflitti irrisolti.