L'editoriale

Dalla spesa pubblica ai migranti: i tanti errori della nostra politica

Nicola Rosato

Su questi temi cruciali le voci del governo e del parlamento sono flebili e confuse; oppure sono slogan replicati ad uso dei social media e non analisi e comunicazione convincenti

La civiltà occidentale, come sappiamo, ha radici antiche. Sboccia ad Atene tra la fine del VI e l’inizio del V secolo avanti Cristo con le prime forme di democrazia, perché, come scrive Eva Cantarella, da quel momento è cancellato «il ricordo di millenni di civiltà orientale». Fu la reazione alle troppe angherie della plebe e ai privilegi dell’aristocrazia. Democrazia in fasce, certo, con una pletora di opinioni assembleari da conciliare, mitigata da stringenti diritti di cittadinanza. Due aspetti che fanno riflettere, perché evocano un parallelo con il carattere frammentato delle nostre rappresentanze politiche e con il dibattito sui diritti da garantire gli immigrati nella nostra società.

Su un punto le assemblee non manifestavano dissenso ed opinioni divergenti: il controllo rigoroso delle spese pubbliche. Pericle, ci dice Giovanni Marginesu, era criticato in famiglia per la sua avarizia; il popolo, invece, apprezzava la sua puntigliosa accuratezza nello spendere e rendicontare il denaro pubblico e gli riconobbe merito e autorevolezza per governare trent’anni.

Non si può dire altrettanto ai nostri giorni, perché accade ciò che Einaudi aveva profetizzato: le nostre istituzioni sono dominate da tanti piccoli gruppi «in concorrenza demagogica per l’incremento delle spese al quale un governo, minacciato ad ogni istante di voti di sfiducia, malamente potrebbe opporsi».

Quanto ai diritti degli immigrati, anche Atene ai tempi di Pericle incontrava problemi. Lì ai forestieri, i meteci, non era consentito di prendere parte alla vita politica. Perfino Aristotele, greco di Starita ma straniero libero ad Atene, non poteva votare nelle assemblee della polis; ma questa discriminazione non impedì ad Aristotele di essere ciò che è ancora. Dunque – questo è l’insegnamento che se ne può trarre – immigrazione come fenomeno da governare, essendo problematici tutti i modelli di integrazione.

Specialmente in Europa anche rispetto agli Stati Uniti, nati con l’immigrazione. Un’immigrazione però, sottolinea Arthur Schlesinger junior, consigliere del presidente Kennedy, favorita dalla comune matrice cristiana degli immigrati. Noi europei, invece, abbiamo un compito più arduo, perché di fronte abbiamo soprattutto persone portatrici di valori radicalmente diversi da quelli occidentali, a cominciare dal fondamentalismo islamico.

Ogni eccesso (accettare tutti o chiudere le frontiere, spesa pubblica senza limiti e discernimento, per stare a due esempi su quanto sopra detto) in politica produce sempre reazioni eccessive contrapposte, che si avvitano in una spirale senza fine. Questo, in fondo, avvertono i moderati, siano essi progressisti o conservatori, come rischio di decadenza della democrazia. Il cardine sul quale ruotano le soluzioni è la visione politica del futuro, supportata da sistemi istituzionali autorevoli. La storia dei totalitarismi docet, anche per quanto concerne la differenza tra politiche per preservare la pace e pacifismo senza se e senza ma, che ha dimenticato l’insegnamento di De Gasperi: «Non abbiamo solo bisogno di pace tra noi, ma di costruire una difesa comune. Non per minacciare o conquistare, ma per dissuadere qualsiasi attacco dall’esterno, mosso dall’odio contro una Europa unita». E questo vuole la nostra Costituzione.

Si deve a James Madison la chiusura definitiva del dilemma tra democrazia plebiscitaria o democrazia rappresentativa o – come diceva lui, per inciso anche attento controllore della spesa pubblica – fra democrazia pura o repubblica. Soltanto un sistema delle rappresentanze che favorisse riflessione, mediazione e una migliore capacità di governo pubblico con le garanzie delle libertà individuali può giungere a decisioni proficuamente orientate all’interesse pubblico, messo in angolo quando invece prevale, per una sorta di crisi inflattiva del potere, la pletora di inconciliabili opinioni, interessi, desideri, emotività individuali. È l’obiettivo che i molti tentativi italiani di riforma costituzionale hanno sempre mancato: il bisogno di rafforzare il governo centrale in un contesto di accentuate autonomie e di robusti contropoteri. Che non è propriamente il disegno delle autonomie regionali differenziate e del premierato che, per fortuna, languono in parlamento.

Questo fallimento, all’origine dello smarrimento d’animo dell’opinione pubblica per il deludente governo dell’immigrazione incontrollata, del debito pubblico che alimenta sistemi fiscali aggressivi, dell’economia globalizzata in cui – come ha spiegato Giulio Tremonti – il primato del mercato prevale su quello della politica e che oggi si rituffa nei dazi ottocenteschi, del riaffacciarsi delle guerre che cancellano l’illusione di esserne per sempre al riparo dal pericolo, deriva l’assenteismo elettorale che è di per se stesso un processo di decadenza democratica aggravata dalla privazione per l’elettore di una reale possibilità di scelta della rappresentanza senza voto di preferenza per i candidati.

Su questi temi cruciali le voci del governo e del parlamento sono flebili e confuse; oppure sono slogan replicati ad uso dei social media e non analisi e comunicazione convincenti. Invece di come far tornare i cittadini al voto si discute di terzo mandato dei presidenti di regione. Invece di proporre interventi per risanare le finanze pubbliche, per dare prospettive di sostenibilità del benessere e dello sviluppo in un quadro di equilibrio tra le generazioni presenti e future, per convogliare il risparmio verso la libera iniziativa economica, per cancellare ogni inutile dirigismo burocratico, per incoraggiare e facilitare la formazione di competenze che aprano il mercato del lavoro a tutti nell’era digitale, si mantengono in vita sussidi e sgravi fiscali e contributivi di utilità ed equità discutibili, perché disagio e povertà si possono assistere ma soltanto creando ricchezza si possono eliminare. L’esigenza di rilanciare i tassi di natalità, che sono alla base dell’esistenza stessa di una nazionalità è trascurato proprio dai nazionalisti, mentre gli altri si rifugiano nel referendum per cambiare le regole di acquisizione della cittadinanza. Invece di imparare a governare le immigrazioni o si vagheggiano deportazioni come quelle perseguite da Trump, o si propone accoglienza senza limiti.

Per l’appunto eccessi cui si contrappongono eccessi di segno opposto. Sono questioni di immensa portata non circoscrivibili solo all’Italia perché vivono in uno scenario internazionale di radicale instabilità.

Ne deriva che è velleitario e, anzi, autolesionistico non inquadrare la politica nazionale in quella dell’Unione Europea, concorrendo anche alle sue riforme necessarie. Ma, purtroppo, anche su questo argomento sono confuse le lingue sia nella maggioranza di governo come nella minoranza parlamentare. Viene spontaneo invocare l’aiuto di Dio, per trovare il bandolo della matassa. Ma è anche appropriato l’auspicio di Victor Hugo: «Verrà un giorno in cui voi tutte nazioni del continente, senza perdere le vostre qualità distinte e le vostre gloriose individualità, vi stringerete in unità superiore e costruirete la fratellanza europea». Sperando che quel giorno non sia troppo tardi.

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