l'analisi

L’architettura della salvezza? Una joint venture tra i pretendenti azeri e indiani con lo Stato italiano

Biagio Marzo

Chiamiamola «emergenza» della siderurgia pubblica e l’epicentro della crisi è Taranto. In generale, il declino della grande industria dell’acciaio a ciclo integrale viene da lontano

Chiamiamola «emergenza» della siderurgia pubblica e l’epicentro della crisi è Taranto. In generale, il declino della grande industria dell’acciaio a ciclo integrale viene da lontano: costi energetici alti e in più le materie prime acquistate all’estero e i numerosi addetti, per via di tecnologie assai datate, il cui numero ha pesato nel bilancio delle aziende che, nello stesso tempo, non si sono sapute rigenerare per essere competitive nel mercato estero.

In particolare, le imprese che riescono a competere con successo sul fronte della qualità e dell’innovazione sono troppo poche e molto spesso troppo piccole. Sicché, un segmento del capitalismo italiano risulta insufficiente per dimensione e per peso economico, e perché no, politico, visto che per decenni non ha formulato una strategia industriale, per poter rappresentare da solo la panacea di tutti i mali di una economia che sta soffrendo più di altre la crisi attuale. In breve, alla crisi del gigantismo industriale con le sue diseconomie l’antidoto è stata la media e piccola impresa. Una costellazione di aziende siderurgiche che hanno tutti i vantaggi, nel contempo, i loro limiti.

Nella siderurgia pubblica rientra la presenza del colosso Tarantino, ormai, in gran parte obsoleto industriale, dal punto di vista della manutenzione ha pesato, negativamente, la passata gestione commissariale e la mazzata finale data da Arcelor Mittal con ad, Lucia Morselli, che si vantava di guidare lo stabilimento siderurgico «più bello» e ricco di aspettative. Infine, in cauda venenum, la decarbonizzazione.

Bando alle ciance, anche perché i numeri dicono sempre la verità. Il gruppo AdI ha una perdita un po’ meno di un miliardo l’anno, vale a dire da 50 ai 60 milioni di euro al mese. Per tenere in produzione Afo1 e Afo4, che fanno circa 4 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, di certo, non rientrano nella economia di scala e non fanno profitto. Tenuto conto che per fare la piccola manutenzione si sono spesi 320 milioni del prestito ponte del Mef e, nell’impossibilità di andare avanti nell’attività, nei giorni scorsi, il Cdm ha deliberato con un decreto legge 250 milioni di euro, per proseguire fino a conclusione della vendita. Che dio solo lo sa se ci sarà. In base, al provvedimento del Cdm ha allargato la forbice da 150 a 400 milioni e cosi recita: «…la facoltà di utilizzo a fini di continuità produttiva del patrimonio già destinato a finalità di ripristino ambientale». Senza questo minimo finanziamento AdI avrebbe cessato la produzione di coils e bramme. C’è da da dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità: la somma assegnata di cui sopra, non proviene dalle casse dello Stato, ossia dal Mef o dal Mimit, bensi dal resto del miliardo e mezzo sequestrato alla famiglia Riva, a suo tempo, e vincolato all’esecuzione delle bonifiche. In totale, in ballo ci sono stati 500 milioni in origine, per finalità ambientali, che sono stati impiegati per alimentare le casse vuote. Siccome sono risorse destinate per l’ambiente le critiche e proteste hanno toccato il diapason.

A farla breve, il governo ha fatto il gioco dei tre bussolotti, non avendo occhi per piangere. In che cosa consiste il gioco: le palline possono spostarsi da una parte all’altra e, nel contempo, avere altri effetti, questi altri casi non ci riguardano. Si prevede un altro prestito ponte, nella speranza che non sia una promessa di marinaio, nella Città dei due mari. Andare avanti con il gioco dei tre bussolotti e sulle promesse, aspettando la «vendita» a tre gruppi, uno dei quali scartato in partenza, i restanti non affidabili non è da stare tranquilli. Le offerte vincolante arrivate nelle settimane passate, il 10 gennaio, non fanno ben sperare, per l’acquisto di Acciaierie d’Italia - AdI-. Per dirla tutta, non convincono sotto tutti gli aspetti. Gli azeri di Baku Steel Company insieme a Azerbaijan Investment Company, gli indiani di Jindal Steel International e il Fondo statunitense Bedrock Industries Management compongono una troika di gruppi siderurgici che ha fatto arrivare le offerte per l’acquisto di AdI.

Il Fondo a stelle e strisce è un cavolo a merenda, entrato nelle offerte per fare solo e soltanto numero e un piacere a colui il quale lo ha invitato a partecipare. Fuori il terzo gruppo, restano gli azeri e gli indiani. I caucasici hanno posto una fiche di 450 milioni euro, gli asiatici una di 60 milioni di euro, per l’acquisto di AdI più gli investimenti. Miseria e nobiltà. Vale a dire nell’offerta e nel blasone che lo storico gruppo siderurgico italiano ha rappresentato ai suoi tempi. Insomma, un nobile decaduto.

Difficile capire quando il commissario as, Gianfranco Quaranta, mettendo in campo la sua lunga esperienza e il suo know how, farà partire la trattativa, trovandosi nella strettoia delle offerte. A occhio e croce, i tempi saranno lunghi e non c’è alcuna certezza se la totalità degli asset saranno acquistati e da quale gruppo: l’azero o l’indiano? In base alle condizioni poste da Baku Steel e da Jindal, non ci sono margini di trattativa, ma tutto potrebbe succedere. Se per l’acquisto complessivo ci sono difficoltà grandi quanto una casa, tutto è in discesa per i sette in corsa per lo “spezzatino”, cioè l’acquisto dei singoli asset.

Gira e rigira sono tre gli issues: occupazione, decarbonizzazione e manutenzione. Investimenti cospicui: non si è certi che Baku Steel e Jindal siano in grado di farli. Allora non resta che mettere insieme in una joint venture gli azeri e gli indiani e più lo Stato italiano.

Una architettura finanziaria e industriale facile a dirla e difficile a realizzarla. Altre ipotesi non ci sono, se non la statalizzazione di AdI con problemi insormontabili dal punto di vista di Bruxelles e delle risorse finanziarie dello Stato italiano, che non ci sono neanche per sogno.

Si è raschiato il fondo barile delle risorse ambientali e poi? Fermi nel nostro convincimento: il processo di vendita sarà lungo, con tutte le incertezze del caso. Viceversa, dimostrasse il governo che si starebbe procedendo sulla strada giusta. Hic Rhodus, hic salta.

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