la riflessione

Ora fari su giudici e politica ma l’augurio per il 2025 è poter dire: «la giustizia c’è»

Ettore Jorio

Il caso Salvini, correttamente assolto sul piano del diritto, acuisce il fronte tra politica e giudici

Il caso Salvini, correttamente assolto sul piano del diritto, acuisce il fronte tra politica e giudici. Si arriva addirittura a registrare la bestemmia di un ministro che, poggiando l’asticella sul caso di specie, tira fuori dal sacco il risarcimento dei danni ai PM, evocando il sogno di Silvio Berlusconi. Ciò in presenza, ex adverso, di avere favorito una legge che esenta penalmente tutti dalla pratica diffusa dell’abuso d’ufficio.

In un tale clima si evidenzia nel linguaggio comune, ma soprattutto in quello in uso alla politica, il difetto di parlare indifferentemente di giudici e di giustizia.

Il tema della anzidetta commistione è serio e difficile da affrontare. Ma anche produttivo di timori più preoccupanti.

La politica che governa tenta di demolire il sistema dei controlli contabili esercitato dalla Corte di conti e di pervenire ad una riforma della magistratura intesa a smembrare, per mano del solito Nordio, quello della giustizia ordinaria penale. Riguardo alla prima, la opposizione non dice granché.

Così facendo tutti viene ad eludersi il ruolo parlamentare di realizzare il bene comune e una giustizia universale, con il rischio di esercitare complessivamente la politica prendendo di mira il proprio interesse personale e di parte (Platone docet).

Da una siffatta considerazione, viene spontaneo un temibile quesito: «c’è Giustizia»? I giudici tutti esercitano i loro compiti e i processi nel rispetto del suo nome? Meglio, così dovrebbero far tutti.

Su questo argomento grava però un interesse non sempre apprezzabile dei partiti. Molti dei quali, se non tutti, nella loro espressione governativa e parlamentare hanno assunto un preoccupante vizio, a valle del 1992. Svolgono la loro attività istituzionale predisponendo leggi, condivise da tutti sottovoce, utili a difendere la categoria politica allorquando esposta nell’amministrazione attiva. Lo fanno intervenendo a strascico sul codice dei reati, cancellando l’abuso d’ufficio, nella logica di essere al riguardo tutti uniti nel sostegno della burocrazia, sempre più «schiava di Roma», di quella che governa e dell’altra colpevolmente silente sul tema.

Nel supporre che le leggi debbano essere di esclusivo interesse generale, e non già in gratiam huius ordinis, diventa davvero preoccupante leggere alcune iniziative (l’anzidetta abolizione del reato di abuso d’ufficio) che, in combine con altre (ddl Foti n. 1621), sono intese a mettere alle corde (se non fuori dal ring) il guardiano dei bilanci pubblici. Senza contare l’idea della revisione costituzionale intesa a ridisegnare l’esistenza della magistratura ordinaria, meglio a dividerla tra carriera inquirente e carriera giudicante. Ciò non tenendo conto che la grande forza che la stessa ha avuto nel tempo è essenzialmente dovuta alla medesima formazione di entrambi: stessi studi, stessi esami concorsuali, stesse chance di passare dall’esercizio di un ruolo ad un altro, con sottobraccio la medesima cultura giuridica e la Costituzione. Un insieme di operatori di Giustizia capaci di esercitare bene cose diverse e sistematicamene contrapposte nell’interesse del Paese e della Nazione. La sentenza di Salvini è una prova d’indipendenza culturale dell’attività della magistratura.

Con tutte queste guerriglie e compiacenze, viene a concretizzarsi la paura che il mondo del terzo potere dello Stato sta cambiando (e di brutto) nel più preoccupante dei modi, provocando la perdita definitiva della tranquillità delle persone indistintamente.

Di certo, un mondo con la Giustizia così affievolita fa inorridire padri e figli.

In un tale processo di indebolimento delle garanzie costituzionali, quello sulla Giustizia è di tutta evidenza. Una Corte costituzionale che deve fare i conti con il manuale Cencelli per sostituire i componenti scaduti, il tutto alla faccia del corretto bilanciamento dei poteri. Una giustizia contabile attaccata in modo indegno da un disegno di legge, a firma di un parlamentare recentemente promosso a ministro della Repubblica, funzionale a renderla inoperosa, non gratificata e corresponsabile a seguito di pareri preventivi sugli atti amministrativi degli enti territoriali. Relegata così ad esercitare un ruolo più amministrativo che giurisdizionale. Una sonnolenza garantita alla disciplina regolatoria dei giudizi dei Tar - spesso fin troppo generosi - attratti dalla sirena dello svolgimento di funzione assistenziali ministeriali, affini a quelli politici. Una guerra di puro stampo ragionieristico al sistema dell’iniziativa e della giustizia penale, che però mistifica i numeri a tal punto da mettere insieme le pere con le mele, tra il ceto requirente e quello giudicante, dei quali – rispettivamente – disprezza la chiamata (obbligatoria) ad indagato e festeggia le assoluzioni a cascata.

Da qui, entrano in gioco le sentenze del potere giudiziario e le delibere del giudice dei conti che, spesso, danno una mano alla crescita del senso di sfiducia generatosi nella Nazione. La magistratura, non tutta fortunatamente, ci mette tanto di suo a divenire propensa a dimostrare che nel suo ceto contano i più anziani, come avveniva nelle tribù degli Hausa, degli Ibo e degli Ashanti, capaci di silenziare quelli più giovani e attivamente operanti secondo Giustizia e Costituzione.

L’augurio per il 2025 è quello di assistere al cambiamento: della politica che faccia ciò che deve mettendo in gioco la sua onestà reale nei confronti del terzo potere dello Stato; della magistratura che svolga il suo ruolo giurisdizionale, in modo giusto e virtuoso, dando più ragione ai giovani immacolati e divenuti giudici per missione. Sarà il modo per dire che «la Giustizia c’è!».

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