il commento

Avetrana e San Severo, due città pugliesi nel circo mediatico

Enzo Verrengia

È il degenerare di un mezzo, la trasmissione in diretta delle immagini, concepita non per dare spettacolo bensì per far comunicare l’umanità anche a grandi distanza?

Avetrana e San Severo. Due estremità geografiche della Puglia avvicinate dalla concomitanza della cronaca. Nel primo caso la realtà inglobata dall’intrattenimento. Nel secondo, la fine orribile di una donna, su cui sono in corso procedure giudiziarie, e un femminicidio/suicidio. Entrambe le località subiscono l’irruzione televisiva. Ma l’accaduto di Avetrana e di San Severo non sono troppo complesse e articolate per palinsesti a volte dettati dai logaritmi? Proposti a un pubblico non più solo assuefatto ma dipendente dall’esposizione continua della devianza? Lo scrittore inglese James Ballard, osservatore della civiltà avanzata alla deriva, chiamò «mostra delle atrocità» lo scorrere del quotidiano in un mondo imploso sul suo stesso sviluppo.

L’ordalia di Sarah Scazzi, terminata con la sua uccisione, si riversa su un’intera comunità? L’amministrazione locale interviene per tutelare l’immagine del territorio, perché non sia omologato nella sua completezza all’orrore, con sollecitazione di ansie collettive. Quando nel titolo il nome stesso di un posto, già circolato sub specie clamoris, potrebbe rientrare in certe dinamiche, la questione assurge a uno status di competenza forense.

Peraltro la discussa e attualmente sospesa serie sulla vicenda di Avetrana, ripropone il dibattito sulla televisione contemporanea. Se il peggio, il negativo, la trasgressione e il crimine imperversano innegabilmente dal vero, si devono rappresentare o edulcorare? Il pericolo dell’emulazione è acclarato a rischio di moralismo? Rendere protagoniste figure colpevoli serve a «fare denuncia», a risvegliare le coscienze, a responsabilizzare? Camilleri, dal canto suo, affermò a più riprese che nei suoi romanzi, intendendo soprattutto quelli su Montalbano, non dava troppo spazio al tema della mafia, per la sua convinzione che il compito di combatterla ed espungerla dalla società spettasse alle forze dell’ordine e alla magistratura.

All’altro capo della Puglia, San Severo seguita ad acquisire tratti di turbolenza che non appartengono alla sua grande tradizione culturale e artistica. Da ultimo, le morti a breve distanza di due donne. Per una sono in corso procedure giudiziarie volte a chiarire le modalità dell’evento, per l’altra non si esauriscono lo sgomento, la sofferenza e l’indignazione suscitata dalla circostanza. Un marito che spara alla moglie e poi si suicida, purtroppo, ricorre sempre più spesso. E ogni volta il seguito: i collegamenti in TV, gli inviati, le interviste, i commenti in studio e un rituale che proseguirà fino alla prossima efferatezza.

David G. Compton, compatriota di Ballard, scrisse nel 1977 L’occhio insonne, da cui tre anni dopo il regista francese Bertrand Tavernier trasse il film La morte in diretta. Tale espressione era a suo tempo il concetto che il critico André Bazin, ispiratore della nouvelle vague, dava del cinema. Sulla pellicola veniva fissata la realtà che scorre e, così facendo, si avviava verso la fine di ciascuno. Lo stesso vale per la la televisione. Nel libro di Compton, mostra in diretta il declino fisico delle persone. Come la persona malata terminale che accetta di farsi impiantare nell’occhio un obiettivo con il quale riprende tutto quanto le accade, istante per istante.

È il degenerare di un mezzo, la trasmissione in diretta delle immagini, concepita non per dare spettacolo bensì per far comunicare l’umanità anche a grandi distanza? Mentre invece adesso si intromette nelle vite private, non di rado stravolgendole? O di più, modificandone la verità per adattarla ai propri format, sia nel mero riferirla che nel reinventarla a fini narrativi che devono rispondere a regole commerciali, soprattutto dopo l’avvento degli spot pubblicitari, il cui prezzo è direttamente proporzionale agli indici d’ascolto?

Si legga il filosofo ed epistemologo Karl Popper. Nel suo libro Cattiva maestra televisione scrive: «Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi».

La ricostruzione del delitto di Avetrana e le due vittime di San Severo richiedono analisi profonde. Per Sarah Scazzi vi sono i verdetti. Nel rispetto di un luogo e di esistenze estranee alla tragedia. San Severo attende le conclusioni cui giungerà la magistratura. La televisione, intendendone la propria dirigenza, dovrebbe avviare una fase di accurate riflessioni sulle potenzialità del mezzo che, nelle parole di McLuhan, è il messaggio.

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