L'analisi
Nella strage di Paderno l’ombra del vuoto che «mangia» i più giovani
«Scandagliare il pozzo» del disagio psichico che ha portato un diciassettenne a sterminare la famiglia a coltellate. Ma davvero è possibile scandagliarlo, un pozzo così?
«Scandagliare il pozzo» del disagio psichico che ha portato un diciassettenne a sterminare la famiglia a coltellate. Ma davvero è possibile scandagliarlo, un pozzo così? Inquirenti, magistrati, psichiatri, psicologi, per non dire di parenti, docenti, compagni di scuola, vicini di casa, conoscenti. Non c’è chi davanti a una tragedia del genere di quella accaduta tre giorni fa a Paderno Dugnano, in Lombardia, non resti impietrito. Tutti si è attoniti. Ammutoliti. Sconvolti.
Il dramma che s’è consumato in una villetta a schiera alla periferia di un piccolo paesino della Lombardia, l’uccisione di padre, madre e fratellino da parte di un ragazzo che oltre a vivere insieme a loro, sotto lo stesso solo apparentemente quieto tetto, aveva davanti a sé una vita, la sua propria, da costruire, è ultimo atto di una serie lunga, lunghissima. Tanti altri crimini, altrove, con modalità di «esplosione» psicologica che molto spesso si assomigliano. Altre molte, troppe vittime di improvvise «crisi» di «follia». Altre stragi famigliari, o femminicidi, o morti assurde, inconcepibilmente assurde, come quella - anche questa molto recente - di una giovane donna che in assoluti armonia e raccoglimento interiori guardava le stelle ascoltando musica in cuffia quando si è sentita chiedere scusa per la ferocia inaudita che il suo assassino di lì a un attimo le avrebbe riversato addosso, uccidendola.
Nulla purtroppo e disgraziatamente cambia nel dramma di certi crimini, così come nulla si modifica del dolore immane di chi resta. Cambia però, se pure per scatti involutivi di impercettibili metamorfosi, l’atmosfera piscologica. Una drammatica temperie va modificandosi, quella che fa sì che le componenti di certi delitti si reiterino, allarmando psicologi, psichiatri, altri commentatori attenti al disagio psichico, dei più giovani in particolar modo.
Ci sono termini che ricorrono, nelle descrizioni di molti episodi criminali della cronaca nera, elementi che si ripetono nelle confessioni retrospettive degli autori di omicidi compiuti senza apparenti ragioni e cause. «Non so cosa mi ha preso», «inspiegabile», «inimmaginabile», «raptus di follia». Sembra quasi che quelli che scattano siano dispositivi psichici reiterati, che si scatenano nelle menti e nelle psicologie di assassini che in frangenti tra loro anche opposti, davvero anche molto diversi, hanno in comune l’età: la giovanissima età. Raptus, un tempo si chiamavano (solo) così. Lampi di non ragione, accessi di inaudita violenza e di furia omicida. «Non so cosa mi è preso», «ero preda di qualcosa che non saprei nemmeno descrivere». «Non ero io».
Nessun motivo apparente, o che a ogni modo a posteriori si possa individuare, formulare, dire. Preda di forze incontrollate, troppe volte gli assassini si raccontano così. Quello che è lievemente diverso, rispetto a un passato anche recente, è la possibilità, quasi legittimità retorica del «raptus». Psicologi, psichiatri, terapeuti famigliari ed esperti di adolescenza si affannano a decriptare il presente. Tra le righe dei loro discorsi, si ha l’impressione che certi vuoti siano pneumatici: endemici alla realtà. Che certi «raptus» siano aberrazione psichica corrispettiva di una psicosi che è nell’aria, subliminale prologo di certi collassi. La banalità del male - il male domestico, il male inimmaginato e che si mette a zampillare improvviso, inarrestabile come inarrestabile è il «raptus» - è sempre più accanto a noi. Limitrofa alle nostre esistenze quotidiane, che le lambisce.
I motivi sono tanti, gli esperti, interpellati, li commentano. La solitudine dei più giovani (e non solo la loro), qualcosa che la drammatica esperienza della pandemia ha esasperato. Il concomitante eccesso di attività virtuale, con una crescente difficoltà a separare quella vita dalla vita reale, e un progressivo «inquinamento» della vita immaginaria. Le fantasie, ingolfate di trame filmiche e realtà parallele dissennate e violentissime, fanno sì che «impazzire» sia eventualità meno inverosimile di prima. Certo, ogni spiegazione resta relativa, nessuna teoria possibile basta a spiegare quel che viene descritto come «inspiegabile», effetto di «raptus». Ma altrettanto certo è che accanto all’orrore ammutolito di fronte a tanti efferati fatti di cronaca, - femminicidi, ma anche «famiglicidi» - crescente è la paura per un vuoto che avanza. Un vuoto che banalizza il male, che sottotraccia rende per quanto non dicibili, e giammai motivabili, però visibili le derive psichiche. A saperle vedere, certo. Riempire il vuoto - in tanto bailamme di fatti, di informazioni, di commenti e commentari, in tanta devastante proliferazione di vita virtuale, la priorità in termini di Zeitgeist, di spirito del tempo, resta quella. Vedere il vuoto che riempie tante vite dei più giovani, e provare a farsene carico, ossia abitarlo, animarlo, per quanto possibile diminuirlo. Arginare il nulla che tra schermi sempre accesi, invece si mangia tanto del presente dei ragazzi.