la riflessione

Il caso di Imane Khelif e il tragico declino del dibattito pubblico

Francesco Intini

Storia della rabbia che è diventata motore di rivincita, fino a portarla a conquistare la medaglia olimpica

Imane Khelif, la pugile algerina che ha dominato le pagine della politica e dello sport degli ultimi dieci giorni, è la nuova campionessa olimpica nella categoria dei Pesi Welter.

Una bella storia, a lieto fine. Storia della rabbia che è diventata motore di rivincita, fino a portarla a conquistare la medaglia olimpica. E del contrappasso che l’ha premiata dopo la brutta figura che ha visto assoluta protagonista l’Italia: prima nella plateale protesta della collega Angela Carini, che ha rinunciato alla disputa dell’incontro dopo pochi secondi, e poi soprattutto nella campagna mediatica con cui la politica italiana - a tutti i livelli - ha provato ad appiccicare false etichette alla pugile algerina, definita prima transgender e poi intersex da Ignazio La Russa, il trans da Matteo Salvini, più in generale un uomo da numerose personalità politiche del Paese.

Sorprende, però, solo fino a un certo punto - e già questo dovrebbe far riflettere - che leader di partito, membri del governo, e perfino la seconda carica dello Stato abbiano contribuito a diffondere affermazioni errate e diffamatorie sul conto di Khelif, senza curarsi di verificarne l’esattezza. Ciò che colpisce e inquieta, infatti, non è tanto l’errore in sé - che potrebbe, in altri tempi, essere attribuito a una disattenzione o a una mancanza di informazioni - quanto la natura deliberata e strategica di queste affermazioni.

In un panorama politico - e comunicativo - in cui la logica dei media premia chi riesce a catturare l’attenzione del pubblico con affermazioni provocatorie e non sempre verificate - anzi spesso prive di fondamento - la vicenda Khelif ha mostrato, con una chiarezza allarmante, come la ricerca del consenso possa degenerare in un esercizio di potere che non si fa scrupoli nell’utilizzare una persona - nel brutale tentativo di delegittimarla prima come donna e poi come atleta - come strumento di propaganda. Perché le reiterate accuse e le parole utilizzate per descrivere la pugile algerina non sono un banale errore di comunicazione, figlio di una notizia non verificata, ma la manifestazione di una strategia consapevole, volta a polarizzare l’opinione pubblica attraverso la costruzione di un nemico immaginario, una figura che incarna tutto ciò che è «altro» rispetto a una presunta normalità.

Affermazioni costruite e propagate con una finalità ben precisa: creare una divisione netta tra un «noi» e un «loro», tra chi è ritenuto degno di appartenenza e chi viene sistematicamente escluso e stigmatizzato. In questo scenario, la comunicazione diventa non solo un mezzo di informazione, ma uno strumento di potere, utilizzato per manipolare le percezioni del pubblico e indirizzare il consenso verso obiettivi ben precisi, spesso a scapito non solo della verità, ma persino dell’integrità e della dignità delle persone coinvolte.

L’etica della comunicazione pubblica, oggi più che mai, sembra aver progressivamente perso la sua centralità in un panorama sempre più dominato da logiche di consenso immediato e di posizionamento strategico. E quella che doveva essere solo una storia di sport si è trasformata in un teatro di scontri ideologici e strumentalizzazioni che, come spesso accade, ha finito per sacrificare una persona reale sull’altare di logiche comunicative distorsive e manipolatorie.

Questo meccanismo è emblematico di come, nel tragico declino del dibattito pubblico odierno, l’attenzione non sia più rivolta al racconto della verità, ma alla capacità di polarizzare, di catturare il pubblico - anch’esso sempre più portato prima ad accettare e poi a cercare scorciatoie cognitive - con affermazioni tanto roboanti quanto infondate. Così, un’atleta il cui nome era sconosciuto agli italiani fino a pochi giorni fa, è diventata vittima di un meccanismo che l’ha spinta al centro di un dibattito surreale, prima nazionale e poi globale, in cui la sua identità e dignità di donna è stata messa in discussione sulla base di informazioni tendenziose e frammentate, non verificate, funzionali ad alimentare una narrazione di comodo.

Questa vicenda ci pone quindi davanti a un interrogativo di fondo: possiamo davvero continuare a ignorare il potenziale distruttivo di una comunicazione politica che, in nome del consenso, è disposta a sacrificare persone reali, riducendole a semplici pedine in una partita più grande di loro? E, soprattutto, possiamo permetterci di tollerare una narrazione pubblica in cui la verità viene sistematicamente distorta per fini strumentali, compromettendo la fiducia non solo nelle istituzioni, nei media, ma anche nei valori fondamentali di rispetto e dignità che dovrebbero guidare qualsiasi società civile?

Nonostante negli ultimi giorni si sia assistito a una parziale riconsiderazione dei fatti, dovuta principalmente a un’opera di ricostruzione della stampa globale, la realtà - e soprattutto le potenzialità - dei danni provocati da questa storia rimangono evidenti.

La vicenda di Imane Khelif non è solo un esempio del potere distruttivo di una (comunicazione) politica spesso cinica e irresponsabile, ma anche un inquietante monito su quanto la politica e i media possano diventare strumenti di offesa quando il rispetto e l’etica vengono sacrificati sull’altare del consenso. E in un contesto in cui alcuni media non solo trascurano il dovere di verifica ma addirittura prestano il proprio megafono, la diretta conseguenza è l’alimentazione di una spirale di disinformazione in cui il sensazionalismo strumentale prende il posto della verità e le persone, come nel caso di Imane Khelif, diventano loro malgrado vittime di una narrazione tanto distorta quanto gratuitamente cattiva e perversa.

In questa occasione, ci siamo trovati di fronte a una persona che ha saputo trasformare la sofferenza in un motore di riscatto, canalizzando la rabbia in una forza che l’ha portata a conquistare una medaglia olimpica. La sua storia di rivincita è un esempio a suo modo straordinario, ma non possiamo considerarla la norma. E in un’era in cui i social media rendono ogni affermazione immediatamente globale e poi virale, le accuse si propagano con una velocità e una forza che possono sopraffare chiunque, soprattutto chi non è in grado di reggere il colpo come ha fatto Khelif.

La comunicazione politica ha una responsabilità sociale che, adesso più che mai, non può essere ignorata: ogni parola, ogni messaggio lanciato nello spazio pubblico, ha il potere di costruire o distruggere, di unire o dividere. E forse tocca al pubblico, allora, prendersi le proprie responsabilità e fare uno sforzo in più: rifiutare il declino di questo dibattito politico, combattere le ipersemplificazioni, appassionarsi all’approfondimento. E pretendere il rispetto delle persone, delle loro storie, delle loro debolezze.

Privacy Policy Cookie Policy