L'analisi
Matteo Salvini in Europa tra Vannacci-pensiero e pendenze ancora aperte
C’era una volta la Prima Repubblica e c’era una volta anche il richiamo alle urne: la gente andava a votare in massa - cifre da plebiscito: 83/85% degli aventi diritto - e c’erano partiti che avevano il nome di partiti, richiamandosi a progetti, idee, simboli condivisi
C’era una volta la Prima Repubblica e c’era una volta anche il richiamo alle urne: la gente andava a votare in massa - cifre da plebiscito: 83/85% degli aventi diritto - e c’erano partiti che avevano il nome di partiti, richiamandosi a progetti, idee, simboli condivisi. Quella volta di cui parliamo non usava metterci il nome sopra al simbolo e la comunità politica era un “collettivo”, non la corsa solitaria del “Cesare” di turno. Da un certo momento in poi, diciamo primi anni ‘90, quella “volta” venne soppiantata da una “volta” nuova: scomparvero simboli e idee, scomparvero le “comunità” politiche con i loro impegnativi riti democratici, tipo congressi, comparvero i “partiti personali” brevettati dal loro inventore italiano Silvio Berlusconi e gli esperti cominciarono a commentare questo evento come l’ingresso di una forma di presidenzialismo “ de ‘noaltri”, per dirlo alla romana. Mentre accadevano tutte queste cose, un giovanotto padano, sveglio ma meno attratto dalla speculazione filosofica piuttosto che dalla voglia di sfondare sul palcoscenico del mondo, dopo un breve innamoramento sinistrorso decise che il suo avvenire sarebbe stato in politica. Con la Lega di Umberto Bossi.
Quel giovanotto si chiamava Salvini. Sorvoliamo sul romanzo di formazione del vispo virgulto e arriviamo subito al tempo della sua incoronazione a capo della Lega: siamo nel 2013, dopo una precipitosa discesa agli inferi del partito bossiano, raccolto al 4,09% delle elezioni politiche. Il giovane outsider chiarisce subito quali idee abbia per portare la Lega fuori dal tunnel: via l’armamentario un po’ sgangherato delle origini, con vagheggiamenti secessionistici, e dentro l’ambizione di uno sfondamento nazionale puntando alle viscere del corpaccione elettorale. Fantasmi nazionalistici, euroscetticismo, un pizzico di suggestioni xenofobe qua e là, coltivazione di liaisons dangerouses con Putin, sicuramente non più esibibili ai giorni nostri, rappresentarono gli ingredienti principali del Salvini-pensiero, manifestato intercalando felpe con grisaglie ministeriali, tanto per rassicurare gli industriali del nord. Nel mix entrò anche una potente arma da guerra mediatica, che Matteo si compiacque di chiamare “La Bestia”, capace di una grande pervasività propagandistica nei media. Insomma: in cinque anni portò il partito al 17,36% delle politiche (2018) e poi alle europee del 2019 addirittura al 34,26%. Un’apoteosi compiuta al tempo dell’alleanza con i Cinque Stelle, nel Conte 1. Poi ci fu il Papeete, l’innalzamento dell’asticella della sua hybris, l’uscita dal Governo, il Conte 2, Draghi, le nuove elezioni e la “discesa ardita” all’8,7% (2022).
In vista delle nuove elezioni per il parlamento europeo, dove la “Lega per Salvini Premier”confluisce nel “Partito Identità e Democrazia”, che raggruppa nazionalisti, populisti ed euroscettici di destra e di estrema destra, il leader leghista adotta una strategia di scambio di ruoli con la presidente del Consiglio: all’ostentato neo-moderatismo della Meloni contrappone l’insistito ricorso a temi e atteggiamenti tipici del populismo destrorso, annunciando la chiamata a ruolo di testimonial del generale Vannacci, autore di una bibbia tascabile di quel pensiero. Nel sondaggio di Tecne’ del 1 marzo la Lega salviniana è inchiodata all’8,1%, superata persino da Forza Italia postberlusciniana, al 9,1, trainata dal mite Tajani. Del resto anche le acque interne in casa leghista non appaiono particolarmente chete: il partito degli amministratori, con in prima linea I presidenti Zaia e Fedriga- mal tolleranti la linea sturm und drang del segretario ma silenti per ovvie ragioni nei tempi dell’abboffata di voti ormai remota- rumoreggia di fronte alla comparsa dei Vannacci e alla svolta eccessivamente reazionaria del leader. In sovrappiù il partito dei presidenti di regione vede sfumare l’ipotesi dei tre mandati e questo mette urgenza all’inquietudine. Insomma: non dovesse andar bene nel giro elettorale di giugno, Salvini pagherebbe in una botta sola tutte le pendenze lasciate aperte in questi anni.
Che dire allora al capitano un tempo “pentafelpato” e oggi alla ricerca della felpa giusta che ancora non si trova? Sarà come quei film americani in cui c’è solo un manipolo di duri e puri contro tutti. Se è fortunato e il regista è un reazionario che fa vincere sempre i cowboy, allora per lui è tutto ok. Ma se il regista è uno di quelli che ha fatto l’università del cinema, conosce la storia dei nativi americani e ha visto “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, allora diventa complicata.
Buona visione a tutti.