La riflessione
La morte di Aleksej Navalny e l’eterna parabola del potente e del suddito
Nel corso della Storia ogni tirannide ha soppresso i dissidenti: sarà così per sempre?
Ma che vita grama quella dei potenti. Ci pensate? Non alludiamo alle fatiche amministrative e politiche, per tenere a posto e in ordine la sfera dei poteri, né alle ambasce per governare i sudditi, sempre insoddisfatti, traditori e pronti a girarsi dall’altro lato quando il leader perde il controllo.
No, no, questi sono inconvenienti e pericoli che si corrono quando sei investito del dominio sugli uomini e sulle cose. Noi qui alludiamo invece alle preoccupazioni più serie che un capo vede pendere sulla sua testa e nell’aura del suo potere: che i sottoposti, cioè, non solo critichino, ma facciano insubordinazione, che alzino le barricate, che muovano a ribellione.
Ecco, il non doversi e non potersi fidare porta allora i leader a promettere e inventare, ma anche a guardarsi giorno e notte dalle imboscate e dai tranelli, veri o presunti che siano. Appunto, vivono una vita misera, condita di poche soddisfazioni: un po’ di ricchezza, la notorietà, la potenza, qualche baleno di immortalità.
Per questo i potenti di turno, cui tutto non può essere negato, hanno inventato stratagemmi e scorciatoie per alleviare il loro percorso: convincere i subordinati con i mezzi più diversi, dalla blandizie alle minacce alle risoluzioni indicibili. Oppure, mettere in atto l’arma eterna che un capo muove contro un suo suddito: la sua neutralizzazione. Questa può realizzarsi nei percorsi più diversi: l’oscuramento dell’avversario, la sua denigrazione, la sua detenzione, oppure, ancora, nei casi più difficili, la soppressione dello stesso.
La parabola del potente e del suo suddito, nella migliore tradizione di sangue dei regimi dittatoriali e delle autocrazie, è quella che avrebbe ripetuto Aleksej Navalny, il dissidente morto in carcere in Russia. Il quale è solo l’ultimo dei nemici e avversari di Vladimir Putin catalogati, in una nuvola di sospetti, smentite e controverità somministrate dalle autorità, tra gli scomparsi e «deceduti» in circostanze misteriose.
Non importa la natura e il ruolo di questi avversari: dai leader politici ai giornalisti, una varietà ricca come altrettanto diversificata è la modalità con cui i nemici del Cremlino sono stati spazzati. Il dissidente, sopravvissuto a tranelli, carcere e veleno, aveva avvertito i suoi amici e familiari: «Se mi uccideranno, non arrendetevi!». A spegnere il prevedibile coro di indignazione di individui e Stati ci stanno provando. In primis, l’agenzia Tass, per la quale il ministero degli Esteri russo ha affermato che gli Usa devono astenersi dal lanciare «accuse indiscriminate» per la morte di Alexei Navalny e aspettare i risultati dell’esame forense del corpo.
Se scorriamo la storia all’incontrario non c’è tirannide che non si sia macchiata dell’orrendo delitto della soppressione dei dissidenti. Sacrificio ancora più orrendo perché comporta la violenza non solo su una vita ma addirittura sulle idee degli uomini, su ciò che ci rende più vicini al divino che al bestiale.
Ma così era e così resterà? Certo, in molti potrebbero ricordare che la storia torna sempre a riproporre antiche lezioni, proprio perché è maestra di vita e di politica. Ma è anche vero che il tirannicidio dei nostri giorni si declina in modalità un po’ diverse da quelle del passato.
E non tanto per l’avanzamento che i diritti umani hanno compiuto grazie anche al sacrificio di martiri e vittime di tiranni. Quanto per la amara constatazione che la stessa opinione pubblica, frutto di una catena comunicativa più immediata e reale, per quanto si diffonda come fosse vento, non riesce a fermare il corso dei delitti.
Gli uomini dell’età contemporanea, come per altre tragedie quali le guerre che stanno insanguinando il mondo, deplorano, forse si indignano, poi restano a guardare quello che rimane delle democrazie compiacenti. E quello che incombe delle oligarchie spietate.