La riflessione
Il nodo rappresentanza nel «pasticcio» del ddl sul premierato
Sarà dunque il tempo a dirci se il tradizionale parlamentarismo italiano sarà definitivamente superato. Allo stesso tempo mi chiedo: si tratta della «madre di tutte le riforme», come l’ha definita Giorgia Meloni, oppure di un tentativo eversivo?
Nella seduta del 3 novembre 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge costituzionale che prevede l’introduzione in Italia dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, oltre a un’altra serie di misure correlate. Ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, la modifica entrerà in vigore solo dopo due approvazioni da parte di entrambe le Camere; nonché un eventuale referendum, se la seconda approvazione non sarà a maggioranza qualificata.
Sarà dunque il tempo a dirci se il tradizionale parlamentarismo italiano sarà definitivamente superato. Allo stesso tempo mi chiedo: si tratta della «madre di tutte le riforme», come l’ha definita Giorgia Meloni, oppure di un tentativo eversivo, come ritengono le opposizioni?
Premio di maggioranza, elezione diretta, riduzione delle prerogative del capo dello Stato, spropositati poteri in capo al governo e a scapito del Parlamento. Queste le coordinate politiche e culturali della riforma costituzionale che, a mio avviso, proprio per questo, non s’ha da fare.
La sua entrata in vigore determinerebbe lo stravolgimento definitivo della nostra democrazia parlamentare, già ferita dallo strapotere esercitato dai governi in questi anni. Ogni riferimento al reiterato abuso dei decreti-legge (recentemente stigmatizzato dal Presidente della Repubblica), alle modalità di approvazione della legge di bilancio, alla compressione della discussione parlamentare, all’utilizzo sistematico della questione di fiducia non è casuale, ma voluto.
Siamo in presenza di un vero e proprio stato patologico del sistema, che ci dice che in questi anni i poteri del governo non si sono ridotti, ma si sono dilatati a dismisura e in modo abusivo. È questa espansione dissennata dei poteri di governo che dovrebbe oggi essere arginata. E invece – tamquam non esset – la riforma punta ad accrescere, ulteriormente, la posizione dell’esecutivo, indebolendo il Parlamento, marginalizzando le funzioni degli organi di garanzia, svilendo la rappresentanza democratica.
Questo ddl sconvolge gli equilibri fondamentali della Costituzione repubblicana. Badando alla sostanza, lo fa con l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, che si pone fuori dall’alveo della Costituzione.
Sparisce quel sistema di pesi e contrappesi che poneva in equilibrio Parlamento, governo e Presidenza della Repubblica. Oggi capo dello Stato e capo del governo sono entrambi legittimati dal Parlamento, che dà la fiducia al governo a maggioranza relativa e al presidente della Repubblica a maggioranza assoluta, con l’aggiunta dei delegati regionali. E oggi il Parlamento, attraverso il rapporto di fiducia, ha in mano la vita del governo.
Con l’elezione diretta è il governo che ha in mano la vita del Parlamento. Da questo punto di vista è un disastro.
Questa riforma riduce fortemente i poteri del presidente della Repubblica. Il danno principale è che il testo del nuovo articolo 94 prevede che due suoi poteri fondamentali, cioè la nomina del premier e lo scioglimento delle Camera, poteri che oggi che non trovano alcun vincolo in Costituzione, un domani saranno possibili solo sotto dettatura.
L’elezione diretta del presidente del Consiglio, secondo la maggioranza, darà più potere ai cittadini.
A tal proposito va detto che l’elezione diretta del presidente del Consiglio non è prevista da alcun paese europeo. Come nessun paese prevede la dipendenza del potere legislativo dal capo del governo. Nei regimi presidenziali, come gli Stati Uniti, c’è la separazione dei poteri, mentre il nostro diverrebbe un regime in cui il Parlamento è dipendente dal capo del governo.
L’obiettivo è rendere più stabile la forma di governo parlamentare, ma non la si può superare. Si può pensare alla sfiducia costruttiva, che funziona in diversi paesi, come Svezia, Spagna e Germania, ma l’importante è mettere in campo una riforma istituzionale che affronti i grossi problemi del Paese: stabilità ed efficienza del governo, fine della mortificazione del Parlamento con norme per contrastare l’abuso di decreti legge e voti di fiducia, superamento del monocameralismo alternato, che oggi è l’esito sconclusionato di fatto del nostro bicameralismo paritario, introduzione di un punto parlamentare di raccordo tra regioni e Stato e introduzione di una legge elettorale che guardi allo stesso tempo alla governabilità e alla possibilità per i cittadini si scegliere gli eletti. Il centrodestra adora le liste bloccate e non le vuole abbandonare, altro che cittadini protagonisti.
Insomma, con questa riforma non solo, come appare a prima vista, si rompe l’equilibrio dei poteri, ma si incide profondamente proprio sulla «funzione legislativa», imponendo ai parlamentari collegati al presidente del Consiglio dei Ministri eletto una strana sorta di «funzione amministrativa» o «di governo» che dir si voglia. Costoro infatti, non sono più sciolti dal vincolo del mandato, e quindi non sono più tenuti ad agire nell’interesse di tutti i cittadini, come prescrive l’attuale articolo 67 della Costituzione, e come è proprio di chi esercita l’attività «legislativa», ma sono tenuti ad attuare il programma più votato, tra i vari presentati agli elettori, pena lo scioglimento delle Camere.
Ne consegue che la «politica nazionale» non viene più decisa in Parlamento, ai sensi del vigente articolo 49 della Costituzione, con una dialettica tra maggioranza e opposizione, e, quindi, a seguito della valutazione degli interessi di tutti cittadini, ma è frutto di un battage pre-elettorale nel quale conta molto l’intervento di chi è in grado di finanziare un’incisiva propaganda elettorale.
La drammatica conseguenza è che, un programma deciso prima delle elezioni da una minoranza di cittadini, avendo ottenuto anche un solo voto in più di quello riportato da altri programmi, diventa magicamente un «programma di governo», che addirittura assorbe in sé la «politica nazionale». Un programma, peraltro, da portare a termine entro cinque anni e che, come si è accennato, non deve subire variazioni, come se lo stato di fatto esistente al momento delle elezioni dovesse rimanere immutato per l’intero periodo della legislatura. Un vero illogico pasticcio che, purtroppo, trasforma il nostro Stato comunità, che mira all’eguaglianza economica e sociale dei cittadini, in uno Stato chiaramente servitore del potere economico finanziario e per questo ispirato all’opposto principio della diseguaglianza economico-sociale.
È un fatto gravissimo. E si tenga presente che il Governo Meloni, con questa proposta di modifica costituzionale e con l’azione di governo sinora svolta, ha già ampiamente dimostrato di dare maggior valore alla governabilità piuttosto che alla rappresentanza di tutti i cittadini.